Alla rottamazione renziana seguono le riforme renziane. Il legame è stretto, perché – come scrive Mastropaolo vedendo nel voto sulla riforma costituzionale un referendum anti-casta – Renzi è un pezzo di nuova casta che vince sulla vecchia attraverso la rottamazione. Il secondo atto è cementarsi nel potere attraverso le riforme. Nulla accade per caso. Per consolidare i nuovi padroni nelle stanze dei bottoni serve comprimere la rappresentatività, togliere voce ai dissensi, chiudere l’accesso alla politica e alle istituzioni per le new entries, ridurlo per tutti gli altri. È appunto questo l’effetto che si produce con megapremi di maggioranza, ballottaggi, soglie di accesso, parlamentari nominati dall’alto, chiusura di una camera su due, controllo dell’agenda parlamentare da parte del governo, stravolgimento del sistema di checks and balances.

Ovviamente, così descritto, il prodotto non troverebbe mercato. Quindi, si avvolge tutto in un pacco regalo etichettato «stabilità e governabilità». Ma è pubblicità ingannevole. L’obiettivo dichiarato è evanescente, mentre c’è una corrispondenza biunivoca tra la compressione del confronto democratico e il rafforzamento della nomenclatura, quale che sia. Ed è assiomatico che ingessare politica e istituzioni comunque riduce la contendibilità del potere, da chiunque detenuto.

In questa prospettiva il contrasto non è tra destra e sinistra. L’autoreferenzialità di nomenclatura non ha colore politico, e non è confinata a questo o quel paese. Si vede in Italia come negli Stati uniti, in Gran Bretagna, in Germania o in Francia. Ma la differenza tra una democrazia in buona salute e una gracile e malaticcia sta nella produzione di anticorpi che correggano gli eccessi e mantengano il sistema in equilibrio, flessibile e aperto al cambiamento. Perché non c’è da sperare che una casta nuova sia migliore della vecchia. Soffrirà degli stessi mali.
Per questo bisogna battersi contro le riforme messe in campo. Non per difendere con la Costituzione vigente l’intangibilità di un verbo nobile e antico, ma perché il verbo nuovo riduce la contendibilità del potere oltre il livello di guardia. Data la dimostrata insostenibile leggerezza delle assemblee elettive, il referendum è oggi l’unico e necessario strumento di correzione. Ed è appunto di questo che si parlerà l’11 gennaio nell’assemblea dei comitati referendari presso la Camera dei deputati.

Renzi vuole giungere in ottobre a un voto plebiscitario sulla riforma costituzionale. Questa strategia si contrasta non scagliando anatemi, ma avviando una stagione referendaria che leghi insieme questioni istituzionali e sociali. Probabilmente il referendum NoTriv sarà azzerato dalla modifica della normativa. Ma potrà partire nella prossima primavera la raccolta delle firme per i referendum del 2017 abrogativi delle leggi che più rappresentano il Renzi-pensiero: Italicum, scuola, Jobs Act. Un successo sarebbe un potente volano nella campagna sul referendum costituzionale di ottobre.
Il legame tra vicende formalmente diverse come un referendum sulla base dell’articolo 138 della Costituzione – dove chi si oppone alla linea del governo vota no – e i referendum previsti dall’articolo 75 abrogativi delle leggi renziane – dove gli oppositori votano sì – è stretto e sostanziale. Le politiche di governo nascono nelle istituzioni, e ne sono conformate. Non esistono leggi politicamente neutre. Come dicono i costituzionalisti, la legge è l’espressione più alta dell’indirizzo politico. Scelte regressive come quelle sul lavoro, sulla scuola, sulla Pubblica amministrazione, sulla Rai, sulle tasse, sono passate senza colpo ferire in un parlamento che tre turni di Porcellum hanno popolato di anime morte. E quali leggi e politiche migliori possiamo aspettarci se il prossimo parlamento sarà – come questo in carica – snervato dal sistema elettorale, ossequiente al capo, e succube dell’esecutivo?

Quindi la parola d’ordine del referendum anti-casta va benissimo, ma non basta. Bisogna far capire che tutti i referendum – quello costituzionale e quelli abrogativi – puntano conclusivamente a una diversa stagione, attenta ai diritti e ai bisogni. Chi vuole una scuola pubblica di qualità, più tutele sul posto di lavoro, uguali diritti a prescindere dall’orientamento sessuale deve volere anche un parlamento rappresentativo, una legge elettorale che non metta artificiosi bavagli, strumenti efficaci di partecipazione democratica. E chi nelle istituzioni rappresenta gli interessi delle donne e degli uomini che lo hanno votato deve contare nelle decisioni, e non essere un’obbediente marionetta cui il puparo pro tempore fa alzare la mano. Eguaglianza, diritti, istituzioni si legano inscindibilmente.
Astrattezze? Solo in apparenza. E nemmeno sfugge che oggi tutto accade nel contesto della Costituzione vigente. Questo dimostra che una difesa dell’esistente per una antica eccellenza non basta. Nella campagna referendaria deve emergere con forza il capovolgimento del Renzi-pensiero in tema di politica e istituzioni, per il progetto di una democrazia rivitalizzata e partecipata dal basso.
Quanto a Renzi, leggiamo che dopo la Presidenza del consiglio non cercherà nuove cariche. Gliene siamo grati. Ma quanti anni pensa di rimanere a palazzo Chigi? Non l’ha detto, e gradiremmo una precisazione. Per le stanze dei bottoni siamo favorevoli al turno unico, senza ballottaggio.