Il bus della linea 98 parte dal cupolone di San Pietro e arriva dritto a Corviale, il palazzone lungo un chilometro ai margini occidentali di Roma. Bisogna salirci sopra, attraversare diversi luoghi, per comprendere cosa è diventata la capitale e probabilmente l’Italia intera. Quel percorso si può seguire dalle mappe e percorrere con le street view dei navigatori satellitari. Ma, scriveva Herman Melville, «le mappe mentono sempre, i veri posti non ci sono mai». Ecco perché in Roma alla conquista del West (DeriveApprodi, pp. 160, euro 17) Antonello Sotgia e Rossella Marchini, architetti e urbanisti, sono andati a vedere.

SONO SALITI su quel bus, hanno macinato chilometri e hanno confrontato la loro esperienza, il loro punto di vista orgogliosamente di parte, coi freddi dati della scienza urbanistica. Il loro viaggio nella capitale offre uno sguardo sulle città contemporanee. È una preziosa indagine su Roma che contiene indicazioni che vanno ben oltre il Grande raccordo anulare.
Sotgia è scomparso di recente. «In questo libro abbiamo messo quello che siamo e che abbiamo fatto in questi anni», diceva cesellando il manoscritto. Quel noi, la prima persona plurale che amava utilizzare, abbraccia l’amata Rossella Marchini, coautrice del testo e compagna di una vita. E allude all’attitudine dei due autori: condividere conoscenze, non salire mai sul piedistallo degli esperti o dei tecnici. Sotgia e Marchini insegnano ascoltando. Solo in questo modo riescono a oltrepassare la retorica sulle periferie degradate e rompere gli schemi autistici di quelli che non vanno mai oltre il proprio spazio vitale. Per loro, ad esempio, non bisogna neppure parlare di periferie, disobbedendo a chi ha il potere di fissare i confini, marchiare a fuoco i margini. Solo da questa prospettiva ci accorgiamo che Corviale un luogo problematico ma ricco, del quale bisogna riscoprire la bellezza.

L’IPOTESI che muove l’esplorazione del libro è suggestiva. Fuori dalla giurisdizione del fisco italiano, al di là del territorio del Vaticano, la gestione disinvolta dei terreni e dei fabbricati messa in atto nella riva destra del Tevere dallo Ior produce una specie di laboratorio della città a venire, anticipa la fine dell’urbanistica intesa come scienza che progetta l’uso del territorio come bene comune e apre la strada al dominio della rendita e della finanza. Dunque, la musica è cambiata: questo giro di ballo del mattone non è cosa per palazzinari o furbetti del quartierino. Nella parte di città che è stata segnata più di ogni altra dalla via Olimpica e dal grande evento del 1960 («Le vie del Signore sono infinite», titolò anni fa questo giornale a proposito della speculazione che ne seguì), scopriamo cosa è diventata la città. Non è più la comunità a decidere come utilizzare il territorio. Comandano gli imprenditori, soggetti che godono di diritti edificatori considerati eterni e assoluti. Crediti cementizi passano di mano in mano, gonfiano bilanci, smuovono masse di denaro in borsa e si spostano sulla mappa. Con un piccolo dettaglio: ormai niente è più garanzia di profitto, neanche le colate di cemento dei centri commerciali, fino a poco tempo fa considerate l’investimento perfetto che dà forma ai quartieri e produce forme di vita. Come al Parco Leonardo, sulla direttrice che conduce all’aeroporto di Fiumicino, dove il mall dà il nome al quartiere e ne è la piazza principale.

LA LEZIONE dei due autori è che i movimenti sociali producono la città, la cambiano tutti i giorni con la loro azione. Con passione militante e generosa dissipazione, come accade solo per le migliori imprese intellettuali, Sotgia e Marchini disegnano mappe fatte di storie, inchieste, tabulati. Le loro carte contengono disegni di palazzi, paesaggi e volti. Sono pagine ibride, che accumulano differenti stili, generi e discipline. Ne viene fuori una mappa a grandezza naturale della metropoli, un ritratto in scala uno a uno di Roma.

Costruire questa cartografia significa letteralmente produrre l’altra città possibile, la vita in comune che brulica sotto i nostri occhi e ogni giorno smentisce la nefasta profezia emessa tempo fa da futurologi e urbanofobi, secondo i quali le città non avevano più motivo di essere, superate dal progresso tecnologico e dalla (supposta) tendenza degli umani a ritirarsi in piccoli centri, più facili da controllare, più «sicuri» e in fondo più adatti ad assecondare l’individualismo proprietario. È avvenuto, tra mille contraddizioni, esattamente il contrario: da un decennio ormai, e per la prima volta nella storia, nel mondo gli uomini e le donne che vivono in città hanno superato la popolazione delle campagne. Il che ci interroga sul senso stesso della politica e ci invita a riconsiderare lo spazio urbano, le sue reti produttive e cooperative, la riconquista di spazi e autonomia.