In ogni città cinese che, negli ultimi anni, mi capita di attraversare non perdo occasione di cercare qualche possibilità, ancora superstite, di assistere a uno spettacolo di teatro delle ombre. Il fatto di sapermi ogni volta circondato da ragazzini non riduce la portata dell’evento. Ieri, in un piccolo teatro sotto la Piccola Pagoda dell’Oca Selvatica a Xian quest’evento prendeva il nome di «mai huo lang», che non significa altro che «il venditore di oggetti». Sarà un semplice caso ma proprio ieri mi chiama un amico dicendo «abbiamo sentito Yervant per i film sul deserto ma Angela sta male, è in ospedale». Che qualcosa non andasse lo sospettavo anche prima di mettermi in viaggio. Non mi sarei mai aspettato però quello che, ore dopo, mi raggiungeva con un messaggio di un amico «Hai saputo di Angela?».

Nell’emozione senza parole, c’era qualcosa che mi costringeva a trovare un posto (un luogo mentale) ai suoi innumerevoli e bellissimi acquerelli, a quei rotuli-costellazioni di figure e a quei taccuini riempiti di segni. O meglio, ho sentito l’esigenza di dover dare una risposta al perché questi non abbiano mai avuto il giusto rilievo (o un qualche rilievo) nel nostro discorso sul cinema dei Gianikian. Lì Angela era sola. E forse anche questo ne faceva un fatto quasi personale, privato. O comunque secondario rispetto al grande cinema che tutti conosciamo, un cinema a quattro mani (indivisibili), appunto.

Si potrebbe pensare a questi suoi acquerelli in solitario come a un contraltare rispetto al cinema di Gianikian e Ricci Lucchi: tanto epico l’uno quanto concisi, occasionali, micro-narrativi gli altri. O ancora, tutto concentrato sulla messa in scena (e sullo smascheramento) della violenza o dell’imperialismo modernista l’uno, quanto pronti ad esibire una sorta di fragilità e innocenza costitutiva gli altri. Non a caso, era proprio Angela in una conferenza dal titolo «Secolo Cane-Lupo» (e che risale al tempo del nostro primo incontro nel 2009) ad affermare, con la sobrietà che le era propria, «Il nostro primo lavoro riconosciuto a livello internazionale, Dal Polo all’equatore (1986), è un film sulla violenza: violenza sull’ambiente, sugli animali e sull’uomo. È un film che culmina con la prima guerra mondiale ed è stato l’inizio di tutta la nostra ricerca sulla violenza. Noi pensavamo, in un certo senso, di esorcizzare la violenza. Invece oggi ci troviamo di fronte a una tale forma di violenza, anche culturale, per cui quel nostro scavare nell’ideologia del materiale d’archivio – non solo l’interesse per il cinema ma anche per la fotografia – quel nostro imparare a leggere gli archivi, ci è servito anche a codificare quelle immagini che tutti i giorni ci vengono date in pasto».  

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Non smetto di pensare che gli acquerelli di Angela condividessero anche una sorta di matericità originaria con quella del loro cinema. Lacerati dall’emulsione, macchiati, giuntati tra loro, assaliti dalle muffe, virati e rallentati, i fotogrammi di Gianinkian e Ricci Lucchi – nella proiezione – non lasciano estinguere la loro premessa materiale, il loro supporto fisico. Altrettanto spettrali, diafani, trasparenti, i segni sulla carta di Angela hanno il carattere di apparizioni, di tracce, di resti. Tradiscono un anacronismo nella tecnica che è anche quello delle loro pellicole. Ma è in rapporto a tutto il discorso sulla temporalità del cinema di Gianinkian e Ricci Lucchi che questi disegni minimali mi sembrano avere il carattere di spia, nel senso di Ginzburg.

Questo inventario di segni, quasi un bestiario medievale, appare come una sorta di miniaturizzazione che ha molto a che fare con l’idea di giocattolo in senso benjaminiano. «Giocando – dice Agamben – l’uomo si scioglie dal tempo sacro e lo ‘dimentica’ nel tempo umano». E cioè, grazie alla miniaturizzazione tutto ciò che è vecchio si trasforma (si profana) in giocattolo. Senza che questo sia una fuga dalla storia.
Ma ancora al giocattolo rimanda il film di Gianikian e Ricci Lucchi Carrousel des jeux o Ghiro ghiro tondo, come nella versione precedente. Si decide di «fare Storia partendo dai rifiuti della Storia» – come avrebbe detto Benjamin, identificando questi detriti nei giocattoli.

«Prodotti collettivi», cioè, che rimandano sempre ad un confronto con il mondo dell’adulto e che di questo riliberano, ogni volta, quel gioco primo che si è fossilizzato in norma, in abitudine, in un tempo morto. Quando vedo Notes sur nos Voyages En Russie del 2009 – ora rifuso nel grandioso Journey to Russia (1989-2017) presentato all’ultima Documenta – non posso pensare a tutto quel lavoro invisibile di Angela se non come ad un teatro delle ombre, in cui dietro un grande schermo bianco, semplici automi fanno la loro breve apparizione. Mettendosi a fuoco e perdendolo. Per poi riapparire più nitidi, ancora una volta.