Il dibattito sulla critica stilistica, così intenso e vivace, a partire dalla pubblicazione di opere di grande rilievo come Critica stilistica e storia del linguaggio di Leo Spitzer (Laterza, 1954) e Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale di Erich Auerbach (Einaudi, 1956), segnò un momento importante della vita culturale italiana. Coinvolse non solo filologi e linguisti – Aurelio Roncaglia, Alfredo Schiaffini, Benvenuto Terracini, Gianfranco Contini, Cesare Segre … – ma anche personaggi come Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini. Ricostruisce con grande perizia i nodi centrali di questa storia – ricorrendo anche ampiamente e per la prima volta ai carteggi – e di come questa ha condizionato e condiziona la nostra interpretazione di Spitzer e di Auerbach, Guido Lucchini, Tra linguistica e stilistica Percorsi d’autore: Auerbach, Spitzer, Terracini (Esedra editrice, pp. 356, € 27,00). La figura principale è Leo Spitzer, il cui itinerario intellettuale, così complesso e variegato, è indagato a tutto campo. Lucchini mette definitivamente in crisi la filiazione Croce-Vossler-Spitzer – era stata suggerita da Schiaffini e sembrava un dato acquisito – e mette in primo piano il linguista Hugo Schuchardt. Il legame tra il giovane Spitzer (nato nel 1887) e il vecchio Schuchardt (nato nel 1842) è testimoniato da un ricchissimo carteggio, che va dal 1912, in occasione del settantesimo anniversario di Schuchardt, al 1927, l’anno della sua morte. Lucchini indaga da vicino, anche attraverso il carteggio, pubblicato solo nel 2006, questo rapporto: Spitzer, pur non condividendo il suo conservatorismo, ammira la straordinaria personalità dello studioso, l’autore del Vokalismus des Vulgärlateins (1866-’68), che scosse dalle fondamenta le leggi della linguistica positivista, il grande, audace etimologista, sempre attento alle condizioni storiche e culturali dei fatti linguistici. Nel 1922 cura un’antologia dei suoi scritti e scrive nella Prefazione: «Schuchardt ha sempre insistito sull’aspetto emotivo, deduttivo, idealistico, contrapposto a quello meccanico, induttivo, realistico, in questo senso è simile all’espressionismo linguistico che ha presagito». E preziosa, per comprendere la ricca personalità di Spitzer, è anche la splendida antologia dei maestri della linguistica e della filologia – Meisterwerke der romanischen Sprachwissenschaft, 1929-’30, in due volumi – dove egli dialoga con Graziadio Isaia Ascoli, Adolf Tobler, Jules Gilliéron, Charles Bally, Antoine Meillet. Alla luce di tutto questo, si comprende meglio perché la filiazione Croce-Vossler-Spitzer sia solo una leggenda. Croce fu fortemente interessato alla linguistica idealistica di Karl Vossler, che sentiva vicino alle posizioni della sua Estetica – promosse presso Laterza la traduzione di Positivismo e idealismo nella scienza del linguaggio, 1908 – e quando scrisse, approvandola, sulla stilistica di Spitzer, fortemente semplificando, la considerò sempre una pacifica derivazione di quella vossleriana.
Per la ricezione di Spitzer in Italia è rilevante il ruolo di Benvenuto Terracini. Eminente linguista – per lui la lingua è sempre un «atto pratico», uno «storico sentire» – acuto dialettologo, nel solco dell’eredità di Ascoli, Terracini è uno strenuo sostenitore – anche rispetto a una stilistica-linguistica come quella di Giacomo Devoto – di una stilistica-letteraria che si ispira a Spitzer. In lui scopre una guida sicura: «L’indagine di Spitzer passa alla storia proprio in grazia di quella sua lussureggiante facoltà di cogliere nel tratto particolare una folla di analogie e di risonanze per le quali il dato linguistico si trasforma costantemente in un punto luminoso sotto il cui riflesso cova tutto un mondo di viva e ribollente umanità: un balzare, un fiorire, un maturare di idee, di attitudini mentali che, pur fitto e ricco qual è, lascia l’impressione che potrebbe venire indeterminatamente esteso fino a serrare dappresso l’indistinta complessità di una situazione umana». Lucchini ricostruisce tutta la complessa personalità intellettuale di questo studioso che si richiama a Bally, a Meillet, a Schuchardt, che dialoga con Humboldt e con Cassirer, e ripercorre passo a passo, tenendo conto anche degli appunti e delle varie stesure, la genesi lunga e laboriosa del suo ultimo libro, Analisi stilistica. Teoria, storia e problemi (Feltrinelli, 1966), che rappresenta la summa di tutto il suo pensiero e che, dopo la parte teorica, ci offre finissime analisi stilistico-letterarie ( sul canto XXVII dell’Inferno, sulla prosa poetica della Vita Nuova, sul Cinque Maggio manzoniano, sulle Novelle di Pirandello).
Sullo sfondo dell’affermarsi della stilistica possiamo cogliere i paradigmi operativi della critica positivista, così fermamente combattuti dalle opzioni idealistiche. Ma non è un positivismo chiuso su se stesso. Lucchini, nella prima parte del libro, scrive pagine intense sul positivismo inquieto, nutrito di interessi antropologici, di Francesco Novati e sul medievista Gioacchino Volpe – la sua chiamata alla cattedra di Milano fu fortemente voluta da Novati – che, permeato dalle preoccupazioni della lotta politica del presente, che erano del tutto estranee alla Scuola storica, studiò i moti ereticali dall’undicesimo al quindicesimo secolo non tanto nei valori religiosi quanto negli effetti sociali. Anche Hippolyte Taine – viene qui analizzato il suo Viaggio in Italia (1866) – così «tranchant» e positivista nelle formulazioni teoriche, incardinate nella famosa triade «race-milieu-moment», si rivela un critico più complesso, appassionatamente legato a Montesquieu, a Spinoza, a Hegel. Nel suo diario di viaggio, così ricco di annotazioni sulla pittura, cerca spesso di trovare, come nota acutamente Lucchini, «un equivalente letterario delle arti figurative», quasi ad anticipare i modi che saranno di Roberto Longhi.
Come per Leo Spitzer, su cui ci fornisce tessere decisive per la ricostruzione del suo itinerario intellettuale e della sua fortuna italiana, così Lucchini scava nella storia di Erich Auerbach. L’ultimo saggio del libro è «Auerbach e lo storicismo tedesco». Quando studia a Berlino, nel 1919-’21, Auerbach segue i corsi di Ernst Troeltsch – fillosofo e storico della religione, uno dei rappresentanti più notevoli dell’«Historismus» – ed è proprio grazie al suo impulso che scopre Vico, di cui, nel 1924, pubblica, in traduzione, un’antologia della Scienza Nuova. E a Vico fa risalire la scoperta dello storicismo, della storicità delle scienze dello spirito, che trovano – come scrive Wilhelm Dilthey in Costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito – il proprio fondamento nell’identità di soggetto e di oggetto del conoscere. Accanto a Troeltsch e a Dilthey, Lucchini ricorda Friedrich Meinecke. Auerbach cita Le origini dello storicismo (1936) nel capitolo XVII di Mimesis e segue da vicino il quadro delineato da Meinecke per il Settecento tedesco, «un groviglio di piccole “regioni storiche”», e in particolare per Goethe: «l’amore per l’evoluzione lenta e l’orrore per ogni fermentazione amorfa». Ma proprio questo orrore per ogni cambiamento, continua Auerbach oltre Meinecke, limita «la vasta libertà del suo sguardo». Altre voci avrebbero potuto parlare alle menti e ai cuori: «Forse Kleist, e più tardi Büchner avrebbero potuto condurre a una svolta, ma ad essi era negato un libero sviluppo e scomparvero troppo presto».