È un progetto che viene da lontano quello di Sembra mio figlio, il film di Costanza Quatriglio presentato fuori concorso a Locarno. Comincia infatti nel 2005, quando lavorando al suo documentario sui minori stranieri non accompagnati – Il mondo addosso – la regista incontra Mohammad Jan Azad, un ragazzo afghano .

«All’epoca – racconta Quatriglio – Jan era ancora minorenne e viveva in una casa famiglia. Anni dopo, nel 2010, mi ha raccontato di essere finalmente riuscito a contattare sua madre, che credeva ormai persa per sempre», ma che cercava di rintracciare fin da quando era fuggito dall’Afghanistan. È da qui che nasce la storia di Ismail (Basir Ahang) e di suo fratello Hassan (Dawood Youssefi), scappati in Italia dall’Afghanistan da bambini in quanto appartenenti all’etnia hazara, perseguitata dai talebani.

La telefonata tanto attesa con la madre è quasi un punto d’approdo per Jan, e nel rapporto tra di voi, mentre nel film vediamo subito la conversazione tra Ismail e la madre.
Il fatto che Jan mi abbia resa partecipe di una cosa così importante è sicuramente un punto d’approdo, una tappa importante nella fiducia e nella relazione che si è creata tra di noi, fondata sul rispetto e l’ascolto. Allo stesso tempo per me è stato un punto di partenza: da lì in poi è nato un viaggio alla scoperta della portata della storia che mi era stata raccontata. Una storia intima, tra madre e figlio, che tocca corde personalissime ma che ha anche una portata fortemente universale. Non solo perché tratta sentimenti che appartengono a tutti, ma anche perché riguarda un popolo vittima di persecuzioni razziali come quello hazara.

La tragedia degli hazara inizia molto prima della guerra in Afghanistan seguita all’11 settembre.
Il primo tentativo di genocidio risale alla fine dell’Ottocento. Da quel momento è in corso una vera e propria diaspora: gli hazara sono in tutto il mondo, dal Canada all’Australia fino all’Europa. In Italia sono molto pochi rispetto alle percentuali del Nord Europa. La migrazione è principalmente maschile, perché specialmente i giovani maschi vengono perseguitati e uccisi, quindi le madri cercano di farli scappare. Quando ho girato in Iran la seconda parte del film, ambientata in Pakistan, ho conosciuto personalmente molte donne hazara con figli in tutte le parti del mondo, e che non avevano più loro notizie.

Come ha lavorato all’«incontro» fra realtà e finzione?
Mescolando le carte: il film è ispirato a una storia vera ma è stato scritto un copione molto rigoroso, sulla base del quale abbiamo fatto i provini: ne abbiamo ricevuti da tutto il mondo, ma abbiamo avuto la fortuna di incontrare Basir – poeta e giornalista – e Dawood, entrambi hazara che dall’Afghanistan sono venuti in Italia per sfuggire alle persecuzioni. Il fatto che parlassero italiano mi ha consentito di lavorare sulla lingua del film, l’hazaragi, comprendendo i significati e le sfumature delle singole parole. Insieme abbiamo lavorato alla costruzione della memoria dei loro personaggi, che in parte condividono sulla base delle loro esperienze personali. Ma allo stesso tempo hanno assunto la distanza dell’interpretazione, facendo riferimento al copione.

Ha detto che «Sembra mio figlio» cerca anche di ritrovare il senso dell’umano che il nostro Paese e l’Europa sembrano aver perduto per sempre.
Sicuramente è un film che cerca di spezzare il flusso di crudeltà e disumanità che, tra molti, è diventata quasi un vanto. Ma l’Italia non è questo, gli italiani non sono persone per forza xenofobe e razziste, non bisogna cadere in questa trappola. Penso che il film elimini alla radice la questione, perché parla di qualcosa che appartiene a tutti i popoli, di tutti i mondi, e non si pone il problema dei confini e dell’appartenenza – geografica, politica… – ma solo quella al genere umano.