La crisi economica e finanziaria che da più di un decennio attanaglia il vecchio Continente e con particolare virulenza l’Italia ha fatto vittime un po’ ovunque. Vittime eccellenti settori industriali che nel secondo dopoguerra non avevano mai conosciuto così da vicino gli effetti devastanti della recessione.

Se si dà uno sguardo alle cifre, si scopre che tra i settori industriali più colpiti c’è l’editoria. Ma non c’è soltanto la crisi finanziaria a colpire la carta stampata, c’è anche lo zampino della più grande ragnatela del mondo, ovvero la rete internet che ha fatto la sua irruente entrata nell’informazione con effetti devastanti per l’editoria tradizionale.

Ne abbiamo parlato con Maurizio Costa, presidente della Fieg, ex Ad di Mondadori ed ex Presidente di Rcs.

Ingegner Costa, il quadro come lei sa non è consolante: i principali quotidiani e periodici italiani in questi ultimi dieci anni hanno assistito a un vero e proprio tracollo di vendite e a un calo da paura degli introiti pubblicitari. Come se la spiega questa ecatombe?

Maurizio Costa - Fieg
Maurizio Costa – Fieg

 

Se vogliamo datarne l’origine direi che dobbiamo tornare al 2007, quando la crisi finanziaria che ha colpito l’Europa e in modi diversi anche gli Stati Uniti ha cambiato tutti i paradigmi. Se in alcuni settori dell’industria abbiamo assistito anche a momenti di debole ripresa, nell’editoria questo non è accaduto.

Il crollo è stato costante.

Le fornisco un dato eloquente: negli ultimi dieci anni quotidiani e periodici hanno perso oltre il 50 per cento dei ricavi. E se scorporiamo questo dato nelle due fonti principali dei ricavi, vediamo che gli introiti pubblicitari hanno subito un calo di circa il 65 per cento e le vendite di circa il 40 per cento.

Dunque è tutta colpa della crisi finanziaria?

Direi di no. La profondità della crisi del nostro settore, che ha carattere strutturale, non può essere spiegata soltanto con l’andamento negativo del ciclo economico. Io credo che una delle cause principali sia dovuta all’avvento del digitale, che ha portato a una trasformazione profonda e irreversibile del modo di fare editoria.

Dopo sei secoli dalla rivoluzione tecnologica di Gutenberg, con la stampa a caratteri mobili, tutto è cambiato, tutto si è trasformato. Apro una parentesi: io non sono tra coloro che pensano che il digitale sia il male assoluto e che tutto il bene stia nell’editoria tradizionale.

La disintermediazione introdotta dalla rete, ad esempio nel commercio, è un fatto di grande rilevanza, è un elemento di progresso. Quello che trovo pericoloso invece è la modalità e la poca professionalità con la quale la rete gestisce l’informazione e la conoscenza.

Penso che ci sia un abisso qualitativo tra l’informazione che viene fornita dai grandi quotidiani e il dilettantismo con cui spesso la rete diffonde informazione. Con un’aggravante: i grandi player utilizzano sulle proprie piattaforme l’informazione professionale in modo gratuito e l’uso dei dati personali a fini commerciali. Le cause del crollo pubblicitario vanno cercate in questi fenomeni.

È questa una delle ragioni del crollo degli introiti pubblicitari su tv e carta stampata?

Certamente. I grandi player della rete hanno conquistato fette consistenti del mercato grazie a una pubblicità mirata e a un monitoraggio dei gusti dei consumatori. Se lei è un appassionato di occhiali e legge su un sito un articolo sugli occhiali, stia certo che la rete rileverà i suoi gusti e da quel momento le verranno offerti centinaia di modelli di occhiali.

È davvero così pesante la concorrenza della rete in termini pubblicitari? Facciamo qualche cifra.

Partiamo da una valutazione grezza: oggi il mercato pubblicitario vale circa 10 miliardi. Il primo grande player è ancora la Tv con una quota che sta appena sotto il 50%. Ma i top player della rete controllano ormai tra il 25 e il 30 per cento.

E la stampa?

Alla stampa resta tra l’11 e il 12 per cento. Tutto ciò con un’altra aggravante assai rilevante: gli introiti dei top player della rete non sono rilevabili, visto che i grandi gruppi del web di cui parliamo fatturano all’estero. Quindi noi siamo di fronte a una tripla concorrenza sleale: utilizzo improprio dei contenuti, utilizzo dei dati e fiscalità anomala.

Per dirla in altro modo, gli editori hanno subito una trasformazione dominata da algoritmi. E a questa trasformazione forzata debbono rispondere con l’algoritmo della credibilità, devono essere in grado di marcare una diversità nella qualità dell’informazione.

La strada più pericolosa e perdente sarebbe quella di inseguire Internet.

Non pensa che il successo di Internet sia dovuto anche al fatto che, almeno in apparenza, chi scrive su Internet si sente più libero e indipendente? Come racconta «The Post», il film che è ora nelle sale cinematografiche, l’indipendenza dei giornali dai grandi gruppi economici e dalla politica è una delle condizioni della loro credibilità.

Io penso che i giornali siano tanto più autonomi quanto più sono indipendenti economicamente. Ma una delle condizioni dell’indipendenza finanziaria è che essi operino in un mercato corretto e trasparente, senza posizioni dominanti e in presenza di regole competitive coerenti e corrette.

Quale sarà il nostro futuro? Ferma restando la possibilità di agire in un sistema della comunicazione in equilibrio, ribadisco che una informazione qualificata, autorevole, polifonica, basata su fonti certificate e sulla qualità professionale dei giornalisti è e sarà anche in futuro una risorsa fondamentale, non solo per l’editoria ma per la stessa circolazione delle idee e il confronto democratico.

Questa è la sfida che riguarda gli editori, che devono affrontarla attraverso giornali sempre più qualificati, rivolti a un pubblico sempre più consapevole della necessità di una informazione credibile.

Giornali che dovranno per questo anche avere un riconoscimento di «value for money» adeguato.