Due lunghi fischi di sirena, un boato nella notte. Alle ore quattro del mattino, dopo ventidue ore di lavoro, la Costa Concordia se ne sta dritta, emersa dal mare, il parbuckling è compiuto. Sorretta, come un anziano ammaccato e non autonomo nei suoi movimenti, dalle piattaforme artificiali costruite proprio per lei a trenta metri di profondità. Sono i resistentissimi «letti» dove adagiare il suo naufragio fino a primavera, anche se, a sorpresa, il sudafricano Nick Sloane, salvage master della Titan Micoperi, ha dichiarato di essere felice poiché «la malta ha avuto un risultato eccezionale e non è crollata sotto il peso della nave»; prima, nessuno aveva confessato che quella potesse essere una sciagurata eventualità.

La Concordia ha una fiancata collassata, accartocciata come fosse una scultura di lamiere arrugginite dell’artista francese César. Le sue condizioni, sebbene il commissario Franco Gabrielli abbia rassicurato l’audience mondiale, agli occhi di tutti sembrano più precarie che mai. E la sua demolizione urge. Ce n’è di strada in salita da fare.

Una nave che è già una carcassa, un rifiuto galleggiante per inerzia che però, nella fase due, quella del suo smaltimento, rappresenta anche una miniera d’oro, un affare di milioni e la possibilità di un risveglio economico. E così la Concordia si trasforma immediatamente nella nave della discordia. La gara delle candidature non aspetta e non esclude colpi, anche bassi: se il porto di Piombino, il naturale destinatario regionale non sarà pronto a tempo debito, ad attendere quel relitto per farlo a pezzi ci potrebbero essere Civitavecchia (che si dice «dotata di adeguati fondali»), Genova, Porto Torres, la Campania tutta e pure Palermo. La Sardegna, in ginocchio per la disoccupazione altissima, vede la mobilitazione del suo assessore alla Programmazione della provincia di Sassari: basta mettere un «mi piace» su Facebook e magari si può fare pressione sul governo. D’improvviso, nel caos portuale di casa nostra, fa capolino però l’ipotesi sudcoreana: una megapiattaforma potrebbe caricarsi la nave e, a quel punto, tutto il mondo diventerebbe papabile. E l’oggetto conteso sottratto a tutti i litiganti.

In un’Italia in crisi nera per il lavoro, paralizzata nelle sue maestranze e professionalità, si può rinascere a nuova vita – arricchirsi, specializzandosi e attrezzandosi per eventi futuri – tramite un rifiuto del mare. Una nave in coma profondo come via di salvezza. Non è una gran bella metafora dello stato del nostro paese, ma semplicemente un test della disperazione che aleggia ovunque. L’esultanza del presidente del consiglio Letta è comprensibile, ma dovrebbe leggere fra le righe di questo «spintonarsi» fra porti.

Intanto, per conoscere la resistenza della Costa Concordia bisognerà arrivare alla fine di ottobre. «Ci saranno ancora molte indagini sulla stabilizzazione dei cassoni e poi verrà fatta una bozza finale su come le condizioni della nave debbano essere per tutto l’inverno», ha detto Sloane, visibilmente stanco, anche se per lui l’operazione gigliese è stata «come fare un giro sulle giostre» (per emozioni altalenanti, si spera abbia voluto intendere).
All’appello per la prosecuzione dei lavori, solo appena iniziati con la rotazione in diretta televisiva no stop (nonostante tutto, uno degli eventi più antispettacolari cui abbiamo mai assistito, per i tempi dilatati, i movimenti illeggibili, i silenzi surreali, il rombare dei motoscafi di controllo e degli elicotteri) mancano ora un bel po’ di soldi. Ne serviranno molti altri, oltre a quei seicento milioni di euro sborsati per il completamento di questa prima fase. L’ad di Costa Michael Thaam ha comunque tenuto botta: «Pagheremo quel che c’è da pagare».

La nave va ora riparata, poi sarà imbrigliata da trenta cassoni (15 sono già stati costruiti e sono fermi negli stabilimenti di Fincantieri) che, con un sistema pneumatico, verranno svuotati dell’acqua per fornire la spinta necessaria al ri-galleggiamento del relitto.

In un Giglio in festa, fra gli applausi, la soddisfazione, l’eccitazione, l’orgoglio italiano, le campane che suonano, alle cinque di pomeriggio sono sbarcati i parenti delle due vittime disperse, Russel Rebello e Maria Grazia Tricarichi. Kevin Rebello non aveva granché da condividere di quella festa in corso: ha detto solo che stava cercando un posto dove poter pregare per suo fratello.