La mia frequentazione di Armando Cossutta ebbe inizio con il primo dei Congressi del PCI morente (1989/90). Erano appena nate le tre mozioni. I dirigenti della mozione 2 mi «smistarono» sulla 3, quella di Cossutta e Libertini, forse perché non gradivano la mia lontananza dalle genericità ingraiane.

Cossutta ne fu ben lieto. Dopo alcuni anni di Pdup, mi ero iscritto soltanto nel 1988 al Pci perché mi sembrava doveroso impegnarmi a contrastarne il declino. E imparai a conoscere, nella breve e intensa vicenda di quegli anni, la grande serietà e concretezza di Cossutta, descritto scioccamente dagli avversari soprattutto interni al Pci, come «dinosauro» ed esponente di una causa irrimediabilmente tramontata.

Niente di più falso di tale cliché. Egli rappresentava, invece, limpidamente la trasformazione storicamente inevitabile del PCI nella vera socialdemocrazia del nostro paese: trasformazione già avvenuta ben prima del patetico «cambio del nome».

Potrei ricordare numerose vicende, ma ne trascelgo due.

Innanzi tutto il convegno congiunto, ad Arco di Trento, delle mozioni 2 e 3, che avrebbe dovuto portare ad una posizione unitaria ed il cui risultato fu vanificato dal tatticismo di Ingrao. Questi era attratto dalla prospettiva del «nuovo che avanza» ma sovente non aveva ben chiaro cosa fosse il nuovo. Cossutta e coloro che maggiormente lo coadiuvarono in quella circostanza non riuscirono ad ottenere il risultato che forse avrebbe salvaguardato l’unità del partito.

Dopo il Congresso di Rimini fu chiaro che la mozione 3 era stata messa nell’angolo dalle altre due, e si profilò la scelta della scissione. Scelta da me avversata nell’incontro che si svolse a Roma nei locali dell’Hotel Bologna, convocato per decidere cosa fare dopo il pianto di Occhetto ed i conseguenti risultati politici. Cossutta accettò e fece proprie le pressioni dei molti che chiedevano la separazione dal neonato Pds.

La vicenda che ne scaturì produsse due risultati entrambi negativi: il continuo spostamento a destra del Pds fino all’attuale sua autocaricatura sotto forma di Pd e, per altro verso, la durata effimera, nonostante i successi iniziali, del partito che presto si autodefinì Rifondazione Comunista (cui aderii dopo alcuni mesi per chiarezza).

Oggi Bersani è imbottigliato nella cosiddetta «ditta», costretto alla marginalità dal clan che si è impadronito del partito. Allora invece la scelta di restare e proseguire la battaglia politica avrebbe forse potuto mantenere il Pds nel solco del ruolo storico cui s’era consacrato per decenni il Pci.

Dalla autobiografia di Cossutta – libro di grande dignità intellettuale e morale – si comprende quanto quella scelta gli sia allora pesata e quanti dubbi egli nutrisse, e quante pressioni, allora incontenibili, lo abbiano deciso al gran passo.