Sul palco nella grande sala del Fevi appariva minuto e estremamente gentile. Cosmos, il suo nuovo film, arrivava dopo quindici anni da La fidelitè, e il suo annuncio, la scorsa estate, nel cartellone del Festival di Locarno che lo aveva voluto in gara, era stato subito un evento. Lui era felice, della standing ovation del pubblico, quasi stupito, nonostante quel certo sentimento caustico che sembrava divertirsi distillare nelle sue conversazioni.

Adesso Andrzej Zulawski se ne è andato, e Cosmos diventa così il suo ultimo film, anche se definirlo un «film testamento» sarebbe quantomeno riduttivo. È vero, c’è moltissimo dell’universo di Zulawski in quel film, un «Cosmo», appunto di amori e riferimenti, intrecci immaginifici delle arti, il gusto per l’irriverenza irriverente del suo regista.

Che accetta la scommessa, quasi impossibile, di «tradurre» su uno schermo il romanzo di Witold Gombrowicz, scrittore molto amato da Zulawski, trasformandolo in un «thriller noir metafisico» (sono le sue parole), nel quale la poesia diventa immagine, capovolge la realtà, inventa mondi ammiccando al surrealismo di passioni bunuealiane citate con spudoratezza. Due amici, un giovane con la testa perduta nei libri e un altro che invece fugge dalla vita frenetica di soldi e fashion week, si rifugiano in una località sperduta.

La casa che li ospita appartiene a un famiglia eccentrica, la cameriera turba le loro fantasie col suo labbro imperfetto. La giovane figlia dei proprietari è ambigua e bellissima, le frasi della conversazione sono improvvisazioni del pensiero.
E intanto il ragazzo Witold, come lo scrittore di cui Zulawski sposta a oggi, e insieme in un tempo imprecisato l’ambientazione del racconto che è stato scritto nel 1965, scopre ogni giorno strani segni: forse un delitto, forse un mistero, qualcosa che sta per accadere, un gatto ucciso e il corpo di un uccellino trafitto.
Quello che stupisce in Cosmos è la libertà oggi quasi impensabile (e va detto che solo un produttore come Paulo Branco, grandissimo, poteva attualmente accettare una sfida come questa). Un universo personale di riferimenti e di esperienze, quasi la variazione estrema di quella ricerca nel possesso sentimentale di un impossibile gesto amoroso che attraversa le sue storie e i suoi personaggi. E insieme la meraviglia della scoperta, del gioco, di mettere in scena (a Locarno ha avuto il premio per la migliore regia) infinite variazioni possibili del racconto, dunque anche del cinema.
La storia d’amore e il desiderio, l’enigma e il surreale, la scrittura e l’immagine. Una tensione che attraversa un film spudoratamente inattuale e per questo così potente. Ma era il solo modo forse per oltrepassare una frontiera che raramente i cineasti hanno osato superare: dare un’immagine alle parole senza lasciar trapelare la distanza dal reale – ci aveva provato Jerzy Skolimowski, con Ferdydurke.

E lo sguardo di Zulawski provoca questo corpo a corpo, complice anche lui nella creazione del mistero. Bocche rosse in primo piano, labbra che spalancano altri mondi, bocche impossibili da baciare, bocche con un segno che sembra la sagoma di un animale. Zulawski intreccia il suo Cosmo a quello dello scrittore, ne cerca la corrispondenza e non la «traduzione», si abbandona al flusso della parola e insieme ne decostruisce il significato.

Ci sono moltissimi livelli diversi nel film, si può accettare l’ammiccamento dei rimandi ma anche lasciarsi andare alle sue stranezze come in un viaggio o nell’incantesimo di un mago che con una giravolta si diverte a capovolgere il mondo.