Era il 1969 quando l’italiano Giorgio de Santillana, migrato negli Stati Uniti nel 1936 a causa delle leggi razziali, e la sua collaboratrice tedesca Hertha von Dechend pubblicarono la prima edizione di Il mulino di Amleto (The Hamlet’s Mill, Gambit, Boston). Il libro, che avrebbe cambiato per sempre il modo di concepire il mito e la dimensione cognitiva dell’uomo arcaico, ebbe una sua prima edizione italiana nel 1983 per i tipi di Adelphi, e un’edizione tedesca riveduta e ampliata, nel 1993, a opera della stessa von Dechend. Adesso sempre Adelphi, con un’operazione di altissimo profilo, rimette a disposizione del grande pubblico (e al sicuro dall’oblio editoriale) una silloge di testi di de Santillana e von Dechend che costituiscono, di fatto, l’approccio preliminare più compiuto al Mulino di Amleto: Sirio Tre seminari sulla cosmologia arcaica, a cura di Svevo D’Onofrio e Mauro Sellitto («Piccola Biblioteca», traduzioni di Evandro Agazzi, dello stesso Sellitto e di Donatella Tippett Andalò, pp. 171, euro 13,00).
L’idea di fondo dei due studiosi sembra avvicinarli a concezioni al limite dell’esoterismo e dell’anti-modernismo. In realtà le cose non stanno così: si pensi per esempio a come è da loro stigmatizzata la convergenza di vedute fra positivisti di inizio ventesimo secolo, che negano la presenza di cognizioni profonde di astronomia in civiltà come quella mesopotamica, e uomini della restaurazione come Domenico Testa, il dotto monsignore il quale, nel 1822, negava che il mondo potesse essere nato prima del 4000 a.C., perché altrimenti fenomeni come la precessione equinoziale sarebbero stati cognizione comune. Ora, è proprio la precessione degli equinozi a essere raccontata, secondo l’indagine di de Santillana e Hertha von Dechend, nel linguaggio dei miti teogonici e cosmogonici.
L’idea che essi sviluppano ci mostra come l’insieme del mito antico sia stato oggetto di un colossale fraintendimento, tra riduzionismi à la Frazer, evemerismo e storicizzazione, uso improprio dei miti da parte della nascente psicoanalisi. I due studiosi, con coerenza assoluta, ma senza le rigidezze della sistematicità dogmatica, estranea alla natura del materiale mitologico, riscoprono il mito come sede cognitiva in cui la conoscenza che l’uomo arcaico ha del cosmo si esprime per metafora e simmetria, all’interno di un ritmo del tempo scandito dai fenomeni celesti nella loro regolarità. Così all’occhio dell’uomo di oggi, abitatore di un universo indifferente, si manifesta di nuovo quella visione per cui il cosmo comprende e giustifica le singole esistenze in una rete di senso olografica, che all’homo technologicus è sconosciuta anche quando, come da theory in voga, crede di credere.

Eudosso e l’Egitto
Sirio, nella pregevole veste grafica a cui la «collana» Adelphi ha da tempo abituato i suoi lettori, si ripartisce dunque in tre saggi: nel primo, Sulle fonti dimenticate della storia della scienza, di de Santillana, si pongono le questioni di metodo alla base dell’intero campo di indagini in gioco, a partire dal case study Eudosso e dal suo problematico rapporto con l’Egitto, esemplare di una catena di trazione di fraintendimenti filologici e antropologici. Altre questioni di fondo sul piano del metodo, ma soprattutto più sistematiche ed estese indagini sul tema centrale, che al libro dà il titolo, si rinvengono in Sirio, centro permanente dell’universo arcaico, messo insieme a quattro mani da entrambi gli autori. L’intero contributo si basa su alcuni termini di rifermento. Poiché nell’ottica dei due studiosi una qualche conoscenza pratica e di buona approssimazione mensurale della precessione degli equinozi è nota agli astronomi arcaici almeno sin dalla rivoluzione neolitica – ma è probabile che tale acquisizione vada retrodatata al mesolitico – la stella Sirio acquisisce per la civiltà egizia un ruolo peculiare, essendo rimasta per tre millenni immune ai moti apparenti che la precessione induce. Il saggio centrale del libro spazia così dalle attestazioni più remote dei fenomeni legati alla levata eliaca di Sirio, ai testi ermetici tardi, i quali «semplicemente dicono expressis verbis ciò che in tempi più lontani … non era in alcun modo destinato al profanum vulgus» (pag. 43), fino ad arrivare a chiarire passi enigmatici di testi peraltro ben noti: si pensi al versetto 49 della sura coranica della Stella, in cui Allah è definito «Signore di Sirio»: una concezione vertiginosa della versione islamica del dio abramico, qualificato come padrone assoluto del cardine cosmico.
In questa concezione di spiazzante alterità culturale trovano posto fra l’altro anche quei passi omerici (si pensi alla morte di Ettore, nel XXII libro dell’Iliade) in cui la figura dell’eroe principale, Achille, è oggetto di comparazione in similitudini nelle quali la presenza inquietante e ferale di Sirio brilla con luce sinistra sul destino di Ilio e dei suoi principali eroi.
Culmine del libro è infine il terzo saggio, che ha come tema primario Il concetto di simmetria nelle culture arcaiche, a opera di Hertha von Dechend, la quale analizza i concetti di ritmo (numerus) peso (pondus) e misura (mensura) nelle cosmogonie antiche. Dalle osservazioni linguistiche preliminari sul numero, l’arithmòs, sul métron e sul connesso rhythmòs, oscillazione armonica di pesi e tempi, si viene sviluppando, nell’ultimo dei tre seminari, il quadro di una sorta di órganon primordiale fondato su simmetria e ordine. Esploriamo in tal modo con l’autrice l’idea antica di simmetria, che muta il complesso delle condizioni esistentive in un kósmos: così l’uomo arcaico instaura una sorta di connessione intima fra la teleologia e l’ordine della vita e l’universo come realtà vivente in cui i moti a diversi livelli sono in responsione reciproca, come nel caso della comparabilità fra i periodi delle ère astronomiche precessionali e quelli della grande congiunzione Giove-Saturno.

Fra poesia e prosa scientifica
Il linguaggio in cui questa visione del mondo ci parla è tramato di narrazioni figurali nelle quali il rapporto fra il correlato oggettivo e il segno concreto è più stretto e coerente che in una analogia puramente illustrativa. Di qui il tono evocativo, di toccata e fuga, di arte della fuga a metà fra poesia e prosa scientifica, fra canto implicito e pensiero analitico, che fornisce il tono caratteristico dell’abbagliante prosa saggistica di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend. Nel continuo rimandare al linguaggio tecnico arcaico del mito attraverso l’ambiguità della sua stele di Rosetta ellenica, Platone (e delle steli di Rosetta vicarie in piena modernità, da Galileo a Newton stesso), la cathédrale engloutie della cosmogonia primordiale mesolitica e neolitica (per usare un’immagine dello stesso de Santillana) sembra profilarsi al di là dell’ombra dei testi e delle incrostazioni interpretative sedimentate nei secoli, dal moralismo tardoantico ai riduzionismi psicologistici moderni. Illuminante, per capire questo linguaggio, è il riferimento che Mauro Sellitto pone al termine della sua postfazione, richiamando il ricordo di quel danzatore di mimo di età romana che era in grado di plasmare, coi moti della danza, i movimenti logici essenziali della dottrina pitagorica sul piano della misura, del ritmo e della ponderatio. Una embodied cognition che trama il mito e il rito e precorre le basi della cibernetica dell’intelligenza artificiale, segnando il cammino dell’uomo dal primo rilevamento del moto apparente di Sirio al mito del mulino di Amleto, dagli sviluppi tardi della scienza ellenica alle sue trasformazioni segniche e matematiche moderne.