La diffusione di plastiche e microplastiche in ogni anfratto del pianeta, dai ghiacciai agli abissi, è una catastrofe ambientale strisciante, il cui biglietto da visita ha i contorni abnormi del Pacific Trash Vortex, la più grande delle isole di plastica galleggiante che si aggirano per il pianeta. Pensando a come erodere quel mostro, nel 2014, l’allora diciannovenne studente di ingegneria aerospaziale Boyan Slat, lanciò il prototipo di uno strumento che avrebbe permesso di sottrarre all’oceano milioni di tonnellate di plastica in pochi anni. Si trattava di un dispositivo semplice e relativamente economico: un cordone galleggiante a forma di U collegato ad uno schermo in poliestere profondo 3 metri che, trascinato dalle correnti, avrebbe permesso di intercettare e rimuovere la plastica galleggiante.

Erano gli albori di The Ocean Clean Up, un progetto che poi ha preso il volo: convinte istituzioni e cittadini, raccolti in due anni due milioni e mezzo di euro (che al momento sono diventati 35), coinvolto decine di studiosi, con la promessa di ridurre della metà l’isola di plastica in 5 anni. Funziona? Dopo varie spedizioni preliminari, è entrato ufficialmente in azione verso la fine del 2018 e, non senza intoppi, ha appena portato a conclusione la Mission one. Abbiamo raggiunto il team per fare un primo bilancio dell’operazione.

La sperimentazione ha soddisfatto le vostre aspettative in termini di funzionamento e quantità di plastica raccolta?

L’obiettivo principale di Mission one non era di raccogliere plastica ma di verificare l’efficacia del sistema sul campo. Quando abbiamo lanciato il sistema nella sua versione 001/B, eravamo consapevoli del fatto che dovevamo apprendere qualcosa che non poteva essere previsto fino in fondo dalle simulazioni al computer o dai modelli in scala ridotta. I 60 metri cubi di plastica che abbiamo portato a terra devono essere considerati più come l’effetto collaterale, ovviamente positivo, di quello che per noi ha rappresentato un test, finalizzato all’ottimizzazione del nostro design tecnologico. Essendo che il calcolo del peso della plastica rimossa non è privo di incertezze, per il momento preferiamo non diffondere dati non verificati, anche perché osserviamo in questa modalità una tendenza ad alimentare competizione fra gruppi che, come noi, stanno lavorando per la riduzione della plastica negli oceani. Una volta superata la fase di test , è nostra intenzione riportare sistematicamente le quantità di plastica rimosse.

Dove finisce la plastica raccolta finora?

Fin dall’inizio l’idea di The Ocean Clean up era quella di trasformare la plastica raccolta in una fonte di finanziamento, per permettere alle successive operazioni di continuare in un‘ottica di economia circolare. Con questo primo quantitativo di plastica vogliamo chiudere il cerchio con prodotti utili e durevoli, il cui ricavato sarà destinato al 100% alle operazioni di pulizia del prossimo anno. Come primo oggetto abbiamo creato degli occhiali da sole realizzati con plastica oceanica certificata dal Great Pacific Garbage Patch.

I risultati del progetto hanno tardato ad arrivare, alcuni mezzi di informazione non hanno esitato a bollare il sistema come fallimentare. In generale, quali sono state le principali difficoltà?

Quando abbiamo lanciato il sistema 001, il nostro obiettivo era di capire se e come il dispositivo funzionasse nell’ambiente reale: il Great Pacific Garbage Patch. Durante la sua permanenza in mare aperto, ha mostrato che la tecnica di pulizia era corretta per diversi aspetti come l’intercettamento, ma risultava problematico il passaggio della ritenzione: la plastica entrava nel sistema ma poi usciva; anche il tempo di funzionamento è risultato un punto critico, per questo motivo un braccio di 18 metri si è rotto ed ha provocato l’interruzione di tutto il processo. Successivamente il nostro team è stato in grado di realizzare un secondo prototipo, Sistem 001/B, che è risultato in grado di trattenere la plastica. Ora la questione è riuscire ad ottenere un dispositivo in grado di lavorare su lunghi periodi di tempo e di resistere alle condizioni dell’Oceano Pacifico settentrionale. Sono questi gli aspetti che stiamo affrontando nell’elaborazione del Sistem002, che speriamo di lanciare il prossimo anno.

Come si finanzia The Ocean Cleanup, e come vengono scelti collaboratori e obiettivi?

The Ocean Cleanup è un’organizzazione senza fine di lucro e il nostro progetto è finanziato con l’aiuto di donazioni e sponsorizzazioni, sia private che governative. Nella ricerca di nuove partnership abbiamo un processo di verifica strutturato; per noi è fondamentale che la motivazione di un potenziale partner sia davvero quella di ottenere degli oceani più puliti, onde evitare ogni tipo di possibile greenwashing. Un punto fermo è quello di mantenere il brand nelle nostre mani, evitando di dare potere ai partner, per esempio con posti nei consigli di amministrazione. In generale, anche per una questione di efficienza, ci concentriamo sull’ottenimento di pochi grandi finanziamenti piuttosto che su una miriade di piccoli contributi.

Un anno fa avete lanciato Interceptors, un sistema di raccolta della plastica per i fiumi. Quali sono le differenze con il sistema utilizzato per gli oceani? Che situazione avete riscontrato dal punto di vista dell’inquinamento e dove si sta muovendo Interceptor?

Siamo convinti che per liberare gli oceani del mondo dalla plastica siano necessarie due cose. La prima, rimuovere i rifiuti già esistenti, la seconda, impedire che più plastica entri nell’oceano. I fiumi sono la principale fonte di inquinamento da plastica degli oceani: secondo le nostre ricerche , l’80% dei rifiuti che si trovano negli oceani arrivano dall’1% dei fiumi. Interceptor consiste anch’esso in una barriera galleggiante attaccata a una piattaforma di processamento che, come una chiatta, è ancorata al letto del fiume; la barriera incanala la plastica verso la piattaforma, dove un nastro trasportatore separa i rifiuti dall’acqua e li convoglia in appositi contenitori. La piattaforma è alimentata a da pannelli solari e quindi non ha bisogno di persone per funzionare. Al momento, abbiamo Interceptor al lavoro in Indonesia, Malesia e in Repubblica Dominicana. Il nostro obiettivo è affrontare i 1.000 fiumi più inquinanti del mondo da qui a cinque anni.

In che modo la pandemia di Covid ha interferito con il progetto?

Il Covid ha colpito il mondo intero in quasi tutte le sue attività. The Ocean Cleanup non è stato esente. Le nostre operazioni sono state ostacolate in varia misura. Dal 13 marzo scorso abbiamo rigorosamente lavorato da casa e per esempio il collaudo e la manutenzione di Interceptor si sono quasi completamente interrotti, rallentando drasticamente i nostri sforzi sul campo.

Il progetto riprenderà appena possibile a pieno ritmo. L’obiettivo rimane quello che avevamo all’inizio: una riduzione della plastica del 90% da qui al 2040. A chi lo critica perché non risolve il problema alla radice, ovvero l’uso eccessivo di plastica, è lo stesso Boyan Slat a rispondere: «Sono d’accordo, dopodiché qual è l’alternativa? Lasciarla lì?».