«Dopo la sentenza di Bolzaneto non approvare il reato di tortura sarebbe una contraddizione che renderebbe ridicola la posizione dello Stato italiano». Il ministro Andrea Orlando dà la prima risposta alle tante domande dell’Arci. L’occasione è il 60esimo compleanno dell’associazione. Invitate al Teatro Orione di Roma, (quasi) tutte le sfumature della sinistra italiana. Ma la festa non è allegra. A Genova nel 2001 l’Arci era in prima fila con centinaia di altre associazioni. Sedici anni fa, sembra un secolo. Il Guardasigilli non risparmia ’autocritiche’ al Pd ma rivendica l’azione del governo: «Il patteggiamento sui fatti del G8 (si riferisce ai sei manifestanti che hanno accettato un risarcimento, ndr) si è chiuso così perché abbiamo cambiato atteggiamento come governo. E per me non potrebbe essere altrimenti, quel giorno a Genova c’ero anch’io». Ma Francesca Chiavacci, presidente dell’Arci, in apertura, ha fatto l’elenco del molto che non va nell’azione di governo: fra l’altro, lo ius soli non ancora approvato, gli indigeribili decreti sulla sicurezza e sui migranti, oggi ci sono anche le bombe Usa sulla Siria (accorato l’appello «per interromere una spirale di guerra»). In realtà Chiavacci pone ai suoi interlocutori una domanda più di fondo: perché negli ultimi anni, dei suoi sessanta, l’Arci si è sentita sempre più sola a «essere e fare sinistra in modo unitario»; perché «da sinistra non si riesce ad indicare una strada di speranza, di felicità, capace di rassicurare, di suggerire una via diversa dalla diffidenza verso l’altro». Sola l’Arci non è: il suo milione di soci e i suoi 4800 circoli «sempre aperti» sono molto più della somma degli iscritti di tutte le sinistre messe insieme. I 5 stelle non sono stati invitati «perché sull’immigrazione abbiamo valori diversi».
Dopo il candidato alle primarie Pd è il turno di Nicola Fratoianni (Sinistra italiana). Che lo attacca sui due famigerati decreti: «Fermatevi ora». Il Guardasigilli replica: «Possiamo ripensare alcuni strumenti, ma gli strumenti servono. Se no si rischia la guerra fra ultimi e penultimi». Riccardo Magi, Radicali italiani, annuncia una legge di iniziativa popolare – anche con l’Arci – per superare la Bossi-Fini, «una delle principali cause della gestione fallimentare dei flussi migratori: ha creato irregolarità, sfruttamento quindi criminalità».
Il pomeriggio si consuma così: un dialogo definito indispensabile da tutti ma impossibile per molti. Il colpo d’occhio dice che l’autosufficienza è ormai è uno stato d’animo. Matteo Orfini, reggente Pd, concede che tutti i presenti fanno parte del «fronte comune contro la deriva del populismo»; attacca le privatizzazioni che però il suo governo porterà avanti; attacca la smagliante carriera che l’ex capo della Polizia De Gennaro ha fatto dopo il 2001, anche grazie al suo governo. Ma sui decreti chiude: «Sicurezza e integrazione devono andare insieme, se no rischiamo di prendere qualche voto della sinistra dei salotti e perdere quelli della sinistra popolare che pretendiamo di rappresentare». L’ex segretario Prc Paolo Ferrero taglia corto: «Le politiche dei governi Renzi sono di destra». Roberto Speranza (Art.1) glissa sui decreti ( a giorni si vota la fiducia alla Camera) e chiede di «ritrovare tutti assieme una scala di valori». Ma quando si trova seduto accanto al suo ex presidente quasi non gli parla. Ciascuno recita il suo frammento di un discorso che amoroso certo non è. Pensare a una futura intesa elettorale è lunare: «Non serve a nessuno», spiega Orfini ai cronisti.
L’unico che non demorde è Giuliano Pisapia, fondatore della rete Campo progressista. Oggi partirà l’«officina» romana, mercoledì quella milanese: «È bello trovarsi con tante persone con cui spero si possa fare un percorso comune, come quello che ha fatto l’Arci in questi decenni: vicino al territorio sulla base dei valori della sinistra e del centrosinistra». Poi, a margine, assicura: «Vedremo che legge elettorale sarà approvata. In ogni caso io ci sarò».