Salma Tarzi in On the surface (2014) ha portato sul grande schermo la vera anima della rivoluzione egiziana del 2011. Due aspetti rendono il film di Salma uno dei più interessanti degli ultimi anni sulle recenti rivolte che stanno cambiando le prospettive future dei giovani egiziani. Prima di tutto la rappresentazione non edulcorata dei quartieri popolari. In questo caso Matareyya, grande area disagiata dell’immensa capitale egiziana, si intravede nelle sue minuscole case, nei vicoli impolverati, nei mezzi di trasporto di fortuna e negli psichedelici matrimoni. A questo si aggiunge la musica shaabi (pop) di Okka e Ortega, duo rap dal grande appeal sugli under 20 con più di un richiamo alla disco anni 70.

I rapper esaltano la bellezza delle fanciulle egiziane in Give me a kiss mentre raccontano i loro inizi, quando per una serata erano pagati tra le 10 e le 20 ghinee (poco più di due euro) o si esibivano gratuitamente. I giovani che partecipano alle serate di Okka e Ortega non possono che finire in una danza orgiastica a torso nudo, mentre le ragazze, sebbene velate, si lanciano in balli incredibili brandendo le fiamme di piccole bombolette spray. I preparativi di ogni evento comprendono la costruzione di veri e propri palchi. «Abbiamo iniziato con assoli di basso a cui abbiamo aggiunto sintetizzatori, batterie e nuovi arrangiamenti», spiega Okka. «Qui e là abbiamo inserito i versi di Sayyed Derwish per costruire il nostro stile», rilancia Ortega. Spesso il segreto è l’improvvisazione. Dal tok tok alla televisione, i due ragazzi, che negli ultimi anni hanno partecipato a vari film e viaggiato anche negli Stati uniti, guardano sullo schermo di una minuscola tv tra i poveri negozi di Matarreya la loro prima intervista televisiva come il simbolo di un sensazionale riscatto. «Costruiamo le nostre vite a prescindere da chi sia il presidente – continuano – ci avevano detto che i Fratelli avrebbero proibito la musica», aggiungono con ironia i due rapper.

Proprio la bruttezza e la desolazione della povertà sono temi che infastidiscono il pubblico egiziano. Sovente le immagini delle strade ricolme di immondizia o case povere producono un senso di repulsione e non lo scatto della denuncia che queste nuove opere potrebbero generare.

È il tentativo di registi come Alaa Lotfi in Coming forth by the day (2012), Harag Omarag e Ahmed Abdalla. Quest’ultimo, noto per il suo film sulla scena musicale di Alessandria, Microphone (2010), ha realizzato uno dei racconti più significativi sulle rivolte del gennaio 2011, Farsha w Gatha (Rags and Tatters, 2013). Si parte con la violenta descrizione della notte del 28 gennaio, nelle ore in cui i detenuti fuggivano dalle carceri. Il protagonista torna ai piedi di Qala, la Cittadella, nel cuore antico del Cairo, e viene picchiato da criminali, infiltrati nei comitati popolari. Sono le immagini in arabo di Al Jazeera a motivare la protesta, mentre le moschee del suo quartiere chiedono ai giovani, dagli altoparlanti, di unirsi ai comitati popolari. «Ho tentato di raccontare le rivolte nel triangolo dei quartieri popolari di Sayeda Nafisa, Qarafa e Mansheya», spiega il regista. Si sentono i canti degli imam, mentre i feriti vengono curati nella moschea. Si susseguono le testimonianze, come in un film che si trasforma in documentario, della madre di un giovane ferito, dei sufi della Città dei morti o tra i rifiuti dei raccoglitori di immondizia di Zebelin. «Ho scoperto come gli uomini vivessero con topi giganti (il cui terribile verso si distingue chiaramente nella pellicola, ndr). Il mio tentativo è stato di non edulcorare gli eventi. Per esempio, mi spaventava l’aggressività dei componenti dei comitati popolari che mi hanno più volte fermato senza motivo», prosegue Ahmed. Il film è stato duramente criticato per la rappresentazione che dà del paese. Eppure il tentativo di Ahmed, già al lavoro su un altro progetto la cui protagonista è una donna che cerca risposte, è stato di dar voce alla gente comune senza ipocrisie.

Per questo, Yousry Nasrallah, allievo del maestro del cinema egiziano Youssef Chahine, in Après la bataille (2013) ha provato a spostare l’attenzione dal giorno della «battaglia del cammello» in piazza Tahrir (il 2 febbraio 2011) a Nazlet el Semman, quartiere ai piedi delle Piramidi dove vivono cavalieri e criminali, affiliati al Partito nazionale democratico (Pnd) dell’ex presidente Hosni Mubarak.

La protagonista, interpretata da Menna Shalabi, ritorna nel quartiere da dove sono partiti gli uomini che avrebbero dovuto intimidire i manifestanti, pagati poche ghinee dal Pnd. Qui incontra Mahmoud, l’unico dei cavalieri ad essere caduto mentre galoppava verso i manifestanti. A Nezlet i cavalli si accasciano al suolo per l’assenza di turisti e un muro, voluto da Mubarak, impedisce agli abitanti del quartiere di raggiungere le piramidi, nascondendo la povertà agli occhi del viaggiatore fugace. L’intera storia racconta il continuo corteggiamento tra borghesia di Zamalek e poveri di Giza, dove l’uno attrae l’altro all’infinito e senza una conclusione specifica. Haj Abdallah, il capetto del partito nel quartiere dei cavalieri assicura con non poca lucidità che «il paese tornerà come prima ma senza Mubarak». I continui contatti dell’attivista con i cavalieri di Giza determinano anche il tentativo di costruire una nuova coscienza politica. E così si discute animatamente della formazione di un sindacato.

«Il tentativo di questo film non era la rappresentazione della rivoluzione ma di capovolgere l’immagine dell’Egitto e di mostrare certi aspetti della lotta di classe», assicura Yousry. «Il contesto in cui vivono dovrebbe rendere i cavalieri di Nezlet dei rivoluzionari: invece a loro basta essere pagati da Mubarak. Cosa impedisce di congiungere l’idea di rivoluzione con la realtà?», si chiede Yousry mentre scorrono le immagini del film. Il regista di Mercedes (1993) che ora sta lavorando ad un nuovo film sull’«orgasmo della borsa» al Cairo, crede che l’errore principale dei Fratelli musulmani sia stato di «non essere rigorosamente laici».

Il racconto delle rivolte, lontano da piazza Tahrir, ha coinvolto molti giovani registi e documentaristi. Questi registi non sono stati affascinati dai racconti della prima ora e dal successo di lavori come Tahrir, Liberation Square (2011) e The Square (2013). In entrambi i casi il racconto cade nella trappola perfetta, nella quale sono inciampati migliaia di attivisti e telecamere di tutto il mondo: ingabbiare l’opposizione al regime all’interno di una piazza. Eppure il lungometraggio di Gehan Nujaim che dà voce ad alcuni attivisti islamisti e punta il dito spesso contro i crimini dell’esercito non è stato mai distribuito sugli schermi egiziani. Oppure i cineasti egiziani hanno corso il rischio di costruire pellicole per il grande pubblico sullo scontro tra stato e società e gli abusi del regime. Ne è l’esempio la vicenda del ritorno all’attivismo di un giovane torturato dalla sicurezza di Stato (Amn el Dawla), in Winter of Discontent (2012) di Ibrahim al Batout.

In quelle ore cresceva per le strade del Cairo la domanda di nuovo cinema indipendente come testimoniano le affollate proiezioni del collettivo Mosireen anche in aree disagiate durante le manifestazioni di piazza. A tentare di partire dal racconto delle fabbriche invece è Mohammed Khan, da poco nelle sale egiziane, con The Factory Girl (2014). In questo caso il regista si sofferma sui sogni di un’operaia e il romantico incontro con il suo diretto superiore.

Da segnalare, infine, l’opera di Lorenzo Cioffi ed Ernesto Pagano Lontano da Piazza Tahrir (2012) viaggio nella periferia del Cairo tra i villaggi di El Desamy e El Saff. Nel documentario si documenta l’amara quotidianità di giovani impegnati in un’immensa fabbrica di mattoni. Gli operai sono reclutati dai caporali, le donne sono condannate all’analfabetismo e ai matrimoni precoci.