Il primo agosto è stato l’Overshoot Day. Da due giorni, secondo i calcoli del Global Footprint Network, l’umanità ha iniziato a utilizzare risorse naturali più velocemente di quanto gli ecosistemi della Terra siano in grado di rigenerare. Senza apparenti patemi, stiamo erodendo il capitale (naturale) del Pianeta, dopo esserci già mangiati tutti gli interessi che si produrranno nel 2018. Se lo facessimo con il nostro bilancio domestico, avremmo già perso il sonno ipotizzando tagli e risparmi. Siccome lo facciamo con aria, acqua e terra, sembra che la cosa non ci riguardi!

Il nostro mondo è andato in overshoot la prima volta nel dicembre del 1970 e da allora il giorno del sovrasfruttamento è arrivato sempre prima. Consumiamo così tanta natura che è come se vivessimo avendo a disposizione 1,7 Terre. Ovviamente non tutti hanno lo stesso peso sulla Terra. Se fossimo tutti cittadini del Qatar l’Overshoot day sarebbe arrivato già il 9 febbraio, il 19 dello stesso mese se vivessimo in Lussemburgo, il 4 marzo negli Emirati Arabi, il 14 marzo negli Usa… Se fossimo tutti giamaicani o vietnamiti ce l’avremmo quasi fatta perché il giorno fatidico sarebbe scattato solo il 13 o il 21 dicembre. E se invece la Terra fosse popolata da più di 7 miliardi di italiani staremmo consumando il capitale già dallo scorso 24 maggio!

Del resto, volendo restare al modello finanziario, noi terrestri ci stiamo dimostrando pessimi risparmiatori e poco attenti investitori. Nonostante i molti campanelli di allarme, infatti, continuiamo a far peggiorare lo stato di salute degli ecosistemi da cui dipendiamo. Le ricerche più autorevoli ci documentano che il degrado dei suoli per l’impatto umano sta esercitando un ruolo fortemente negativo sul benessere umano (almeno per 3,2 miliardi di individui) e sta contribuendo alla sesta estinzione di massa della biodiversità della Terra. Al 2014 più di 1,5 miliardi di ettari di ambienti naturali sono stati convertiti in aree coltivate e oggi in meno del 25% della superficie complessiva delle terre emerse permane una situazione naturale: percentuale che al 2050 si stima possa scendere al 10% in mancanza di interventi immediati.

E non va meglio in mare. Un recentissimo lavoro di alcuni tra i maggiori ecologi marini e biologi della conservazione (The Location and Protection Status of Earth’s Diminishing Marine Wilderness, di Jones Kendall ed al. in Current Biology), analizzando, anche in maniera sinergica, 15 fattori di pressione dovuti all’intervento umano, è arrivato alla conclusione che allo stato attuale mantiene una situazione di integrità naturale solo il 13,2 per cento di tutti gli oceani del mondo (circa 55 milioni di kmq quasi tutti nei mari aperti dell’emisfero meridionale e alle estreme latitudini).

Date queste condizioni, nei prossimi trent’anni si stima che almeno quattro miliardi di persone vivranno in zone aride. Il degrado del suolo, la perdita di biodiversità, il boom demografico (in Africa si stima il raddoppio degli attuali abitanti nel 2050: da 1,25 a 2,5 miliardi), gli effetti dei cambiamenti climatici e la conseguente riduzione delle produzioni agricole forzeranno a migrare fino a 700 milioni di esseri umani. Di fronte a questi scenari si deve agire subito. Possiamo continuare a chiudere porti e costruire muri o, come ricorda il Wwf, lavorare ad un piano globale per la difesa della biodiversità che metta al sicuro il capitale naturale, indispensabile per il futuro della nostra e delle future generazioni, e pretendere, da parte dei governi, politiche concrete come quelle necessarie per centrare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile contenuti nell’Agenda 2030, approvata da tutti i Paesi del mondo nel settembre 2015.