«Chiariamo subito che garantire il diritto umano al cibo non significa da parte dei governi fare azioni di beneficenza o di carità oppure distribuire cibo quando c’è un’emergenza. Il diritto umano al cibo è ben altro e copre una sfera molto più ampia di garanzie: è assicurato quando le persone sono messe in grado di disporre delle risorse per produrlo – terra e acqua – o di un reddito per acquistarlo, ovvero di un lavoro dignitoso. Quindi implica la messa in campo di misure di protezione sociale. Inoltre, il cibo deve essere sufficiente per quantità; adeguato, il che significa sicuro e nutriente, e sostenibile, cioè produrlo non deve comportare l’inquinamento del suolo, dell’acqua o l’emissione gas ad effetto serra».

Hilal Elver è la Relatrice speciale (Special Rapporteur) delle Nazioni Unite per il diritto al cibo. Da sei anni osserva e valuta se e come viene rispettato il diritto al cibo, un diritto umano fondamentale sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ribadito nella Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Giurista di origini turche e docente all’Ucla (Università pubblica della California) di Santa Barbara, in qualità di Special Rapporteur Elver è un’esperta indipendente dai governi e dall’Onu, la sua carica è onorifica e non prevede compensi. L’abbiamo incontrata durante la sua missione in Italia, l’ultima del suo mandato.

Il diritto al cibo implica, per definizione, molteplici questioni politiche, sociali e ambientali. Quali aspetti del diritto al cibo ha potuto approfondire durante il suo incarico?

Il campo d’azione di questo incarico è estremamente vasto. Io ho scelto come priorità, temi sui quali ho scritto le mie relazioni, l’impatto dei cambiamenti climatici, i pesticidi, i problemi della nutrizione, la disparità di genere, perché donne e bambini sono tra i soggetti più vulnerabili insieme ai migranti, e soprattutto mi sono occupata del lavoro in agricoltura e nella pesca. Paradossalmente, i braccianti, le persone che producono il cibo, sono anche quelle che hanno più difficoltà ad accedere al cibo perché hanno salari più bassi di qualsiasi altro settore a fronte di orari di lavoro massacranti Sono i braccianti gli eroi del nostro cibo. Le loro difficoltà le ho riscontrare anche in Italia, soprattutto tra i migranti, anche tra i piccoli agricoltori che non sono adeguatamente remunerati dalla grande distribuzione.

Perché, nonostante i proclami e l’impegno delle organizzazioni internazionali, il numero delle persone che soffrono la fame nel mondo, più di 800 milioni, è tornato ad aumentare negli ultimi 3 anni?

Lo sforzo per risolvere il problema della fame è reale, nessun governo vuole esporsi al rischio di conflitti sociali. Però non è efficace. Le cause sono molteplici. L’impatto dei cambiamenti climatici ha reso più difficile produrre il cibo. Poi ci sono zone del mondo dove i conflitti si sono aggravati, dalla Siria allo Yemen, dal Sud Sudan alla Somalia alla Nigeria. Inoltre, altri fattori come gli choc economici e la volatilità dei prezzi espongono i paesi in via di sviluppo, che dipendono dai mercati internazionali per le derrate alimentari, alle fluttuazioni del dollaro. Sono stata di recente in Zimbabwe – una missione davvero difficile – dove l’inflazione è al 500%. Lì non c’è carenza di cibo, gli scaffali dei supermercati sono pieni, ma le persone non se lo possono permettere. La causa maggiore, a mio parere, è stata la pressione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale a sviluppare politiche agricole orientate all’esportazione che ha portato i paesi in via di sviluppo a produrre più per i mercati esteri che per il mercato interno, invadendoli poi con altri prodotti a basso costo. Questa politica ha impoverito terribilmente i contadini costringendoli a migrare. Se la comunità internazionale vuole davvero risolvere il problema della fame deve rivedere le regole e i principi del commercio internazionale. Io raccomando politiche più orientate alla sovranità alimentare, in cui ciascun paese possa decidere in autonomia come, quanto e cosa produrre.

Nella sua relazione sull’uso dei pesticidi, lei sottolinea i possibili rischi alla salute di chi lavora in agricoltura e raccomanda l’adozione di un trattato internazionale per regolamentare i pesticidi nocivi. Sono cominciati dei negoziati? C’è qualche possibilità che venga approvato?

I negoziati cominciano sempre, non c’è nulla che venga davvero ignorato, ma non si sa se andranno a buon fine… I produttori di pesticidi sono tre multinazionali con profitti da capogiro, che hanno attaccato la mia relazione in cui sostengo che si può nutrire il mondo anche senza i pesticidi. Mi hanno addirittura accusato di essere contro il diritto al cibo, di non capire qual è il mio incarico. Se nei paesi industrializzati esistono regole, controlli e sistemi di monitoraggio sull’uso dei pesticidi, questo non accade nei paesi in via di sviluppo, dove i lavoratori agricoli non hanno sistemi di protezione, passano le loro giornate dentro le serre, dormono nelle serre, mangiano nelle serre sature di prodotti chimici. In Argentina, dove ho svolto una mia missione, c’è una zona di coltivazione della soia talmente contaminata che le persone si ammalano gravemente. Inoltre, esiste un mercato nero di pesticidi che, messi al bando in alcune zone del mondo, vengono utilizzati altrove. La transizione verso un’agricoltura più sostenibile è solo all’inizio, il tema è complesso, ma almeno deve essere discusso in modo esaustivo.

Serve più informazione?

Certo, e ricerca autonoma. Queste multinazionali finanziano sempre più le università, parlo degli Stati Uniti, non conosco la situazione in Italia. E, guarda caso, certi tipi di studi risultano più favorevoli a certe aziende. La manipolazione della ricerca è un tema molto serio. Oggi sappiamo che l’industria dello zucchero ha nascosto per molti anni i risultati di studi sul rischi dell’obesità, altra piaga di questi tempi. Perché non solo abbiamo quasi un miliardo di persone che soffrono la fame, ma ci sono altri 2 miliardi di persone che sono malnutrite perché si alimentano con cibo-spazzatura.

Pensa che la sugar tax possa servire a contrastare l’obesità?

Certo! Il Messico l’ha introdotta e si sono visti dei risultati. Va affiancata da altre misure come ridurre la dimensione delle porzioni, limitare la pubblicità del cibo per i bambini, migliorare le etichette. In Cile hanno introdotto le etichette a semaforo, che trovo molto dirette ed efficaci.

In un suo documento ha scritto che, per come è articolato, «il regime dei diritti umani, incentrato sulla responsabilità degli stati, difficilmente riesce a tener conto delle responsabilità delle imprese quando violano tali diritti». Come si può intervenire?

Fortunatamente le cose stanno cambiando, anche se lentamente. L’orientamento più recente per la protezione dei diritti umani tende a includere anche la responsabilità delle imprese e a farla valere in sede giudiziale perché è chiaro che molte violazioni sono commesse dalle imprese. Certo, è lo stato che deve imporre le regole, l’auto-regolamentazione o le politiche di responsabilità sociale dell’impresa non servono granché quando l’unico scopo è il profitto. Bisogna lavorare a norme che prevedano obblighi extraterritoriali degli stati quando le loro imprese operano all’estero, affinché le norme che valgono, per fare un esempio, in Italia, vengano fatte valere anche in un altro paese che magari ha una legislazione più blanda o chiude gli occhi di fronte a una violazione per non danneggiare un investitore estero.

Lei è turca. Cosa ci può dire del rispetto del diritto al cibo nel suo paese, soprattutto per i milioni di rifugiati nei campi profughi?

Come Special Rapporteur non sono tenuta a scrivere relazioni sul mio paese. Posso dire che i campi profughi in Turchia sono gestiti bene e i diritti fondamentali sono rispettati. Il problema grave è che il governo turco utilizza la crisi dei migranti per minacciare l’Unione Europea. Gli esseri umani non possono mai essere oggetto di negoziato.

Perché ha scelto di fare una delle sue missioni proprio in Italia?

Per diverse ragioni. Intanto perché l’Italia è uno dei più importanti attori globali della produzione di cibo. Inoltre, come membro della Commissione per la sicurezza del cibo presso la Fao a Roma, dove c’è anche il World Food Program, ho lavorato con i governi italiani molto da vicino su questi temi. E poi perché l’Italia, mentre promuove attivamente il diritto al cibo all’estero, non lo considera al suo interno.

Vuole dire che in Italia il diritto al cibo non viene adeguatamente riconosciuto?

Nella Costituzione italiana non si fa riferimento esplicitamente al diritto al cibo, quindi l’applicabilità in giudizio diventa più difficile. Ci sono state in Italia sentenze che hanno riconosciuto il diritto al cibo, ma indirettamente, facendo riferimento ad altri diritti fondamentali, questo succede perché in generale i giudici lo conoscono poco. Qui noto maggiore attenzione alla sicurezza alimentare, che implica un orientamento e un’attenzione alla produzione, ma il diritto umano al cibo è altra cosa.