Sono trascorsi dieci anni dalla distruzione del campo profughi palestinese di Nahr al-Bared a Tripoli.

Marwan Abdul Al, membro dell’ufficio politico del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, segue da allora una ricostruzione difficile.

Lo abbiamo incontrato in occasione della consegna del premio Stefano Chiarini, il giornalista de il manifesto scomparso nel 2007, pochi mesi prima dell’assedio di Nahr al-Bared.

Che ricordo ha di Stefano?

Sono felice di ritirare il premio Chiarini. Conobbi Stefano nei suoi primi viaggi nei campi profughi palestinesi in Libano, mi trasmise subito la centralità della solidarietà internazionale intorno alla nostra causa. Ad ogni anniversario del massacro di Sabra e Shatila ricorre la memoria indimenticabile sua e di Maurizio Musolino.

Il premio le è stato assegnato per il suo impegno nella ricostruzione di Nahr al-Bared. A che punto sono i lavori?

Il campo fu completamente devastato dopo l’ingresso di Fatah al-Islam, gruppo estremista islamico, e il conseguente scoppio della battaglia con l’esercito libanese. Vittima ne sono stati i rifugiati palestinesi. Dopo la distruzione siglammo un accordo con lo Stato libanese e la comunità internazionale per ricostruirlo, ma 10 anni dopo solo la metà è stato rimesso in piedi.

I motivi del ritardo?

Responsabile della ricostruzione è l’agenzia dell’Onu Unrwa, che ha subito in questi anni seri tagli di bilancio. Finora ha raccolto 36 milioni di dollari, ne servono 107. Il progetto non ha priorità, soprattutto con l’esplosione della crisi siriana. Molti Stati hanno promesso denaro, tra cui il Golfo, ma non hanno mandato nulla.

Cosa è successo nel 2007?

Circa 200 miliziani da Iraq, Giordania e Arabia Saudita sono entrati e sono rimasti tre mesi. Avendo svolto un ruolo di mediazione per la loro uscita, ho percepito che quello che stava accadendo aveva dei retroscena molto più grandi , che gli ordini agli islamisti arrivavano da fuori. Come fosse un test, una prova, per la successiva esperienza dell’Isis.

Uno di loro mi disse: «Porteremo avanti il progetto di uno Stato islamico, da qui fino a Mosul». Hanno tentato di trascinarsi dietro i rifugiati palestinesi, ma hanno fallito: i 30mila abitanti di Nahr al-Bared hanno lasciato il campo con i gruppi armati per evitare di scontrarsi con l’esercito e divenire scudi umani. Abbiamo sacrificato le nostre le case piuttosto che l’esistenza del campo stesso.

Così avete salvato il campo e il suo significato.

30mila rifugiati si sono ritrovati di punto in bianco in baracche, garage, per le strade. Ce ne siamo andati senza nulla in mano. Abbiamo perso quello che avevamo costruito in 60 anni, i nostri beni e le nostre memorie. Per questo per noi la più grande conquista è stata riaffermare l’esistenza del campo sulle mappe, essere riusciti a ricreare il tessuto sociale, mantenere la nostra identità. Nahr al-Bared è un avamposto del diritto di ritorno in Palestina.

Dopo gli accordi di Oslo e la morte politica dell’Olp, esiste ancora un movimento di liberazione che coinvolga anche la diaspora?

Dopo Oslo si è prospettata una soluzione al conflitto senza il ritorno dei profughi. L’Olp, rappresentante di tutti i palestinesi dentro e fuori la Palestina storica, contenitore delle forze politiche e del movimento di liberazione, non ha più alcun peso politico. Il nostro timore è che Nahr al-Bared possa divenire un modello: la causa palestinese dirottata dagli islamisti.

Senza scordare la precaria situazione che vivete in Libano.

Non abbiamo uno status legale, ci vengono negati i diritti civili, una realtà dovuta alla complessa struttura settaria e confessionale libanese. La presenza palestinese è demonizzata a livello securitario, demografico, politico, economico: ogni gruppo etnico o confessionale libanese teme i palestinesi per un motivo diverso.