Se una giuria attribuisce il premio per il miglior film, di fatto esprime attraverso mediazioni e dispute accese, un gusto, talvolta anche un pensiero politico, ossia quell’intenzione un po’ didascalica di dare un segnale forte. Non si dovrebbe però commettere l’errore di sovrapporre la decisione dei giurati con quella più ampia di un festival che nella selezione coglie tanti aspetti sia della produzione cinematografica che della realtà contemporanea.

Per quanto riguarda Visions du Réel di Nyon, non è detto che Café (Cantos de Humo) del messicano Hatuey Viveros, premiato appunto come miglior lungometraggio, sia stato il più meritevole tra i film in competizione. Tuttavia questo lavoro coglie al suo meglio una delle varie possibilità narrative del documentario.

Café è la storia di un ragazzo e della sua famiglia e, soprattutto, qualora non fossimo attratti fino in fondo dalla vicenda personale, è il racconto del presente nel suo accadere, nella contingenza e nella imprevedibilità. Chi osserva il film si trova a inseguire come il regista, una realtà in continuo movimento. Per certi versi, sembra di assistere a tre documentari. Il primo ci porta all’interno di una dimensione rurale, una madre, un figlio, il caffè, il mercato, la necessità di tirare avanti, lontano dai grandi centri. E si ha la sensazione di aver già visto tutto.

Poi però si scopre che il ragazzo studia legge. Sarebbe il primo avvocato della sua comunità, il primo a emanciparsi. In effetti il giovane prende la laurea. Inizia, a questo punto, un secondo documentario che mostra i tentativi del protagonista di dividersi tra la vita precedente e quella nuova, alla ricerca di clienti da assistere e difendere. Anche questa seconda parte, di per sé, non immette contenuti originali e sorprendenti per lo spettatore smaliziato che grazie al cinema ha la sensazione di aver girato il mondo per intero e di sapere cosa accada in ogni suo angolo.

Ecco allora che nuovamente si cambia registro. Non più la madre preoccupata di dare un futuro dignitoso a un figlio senza padre. Non più un ragazzo che si accinge a diventare adulto e a fare scelte importanti. Bensì una giovane donna, la sorella del protagonista, che rimasta incinta si trova a decidere cosa fare. Alla discussione partecipano tutti: la madre, il fratello, il padre del nascituro e il genitore facoltoso del maldestro figliolo che con un assegno vorrebbe risolvere il problema, e silenziosamente siamo invitati anche noi.

Al di là delle direzioni che i protagonisti intraprenderanno, Café gioca con l’incedere della vita, lento, ripetitivo e, al tempo stesso, capace di repentini capovolgimenti, al punto da rendere impossibile, per chi volesse inquadrarlo, qualsiasi schematizzazione. L’imprevedibile si fa storia.

Il secondo premio, sempre nella sezione lungometraggi, è andato alla coproduzione rumeno serba, Padurea/Suma (The Forest) di Sinisa Dragin, già vincitore del Tiger Award nel 2002 a Rotterdam con Every Day God Kisses Us On the Mouth.

Se Café è la storia del presente in divenire, Padurea/Suma è lo sguardo a ritroso di una realtà che si è compiuta, e che nel suo essere accaduta è irrevocabile. Ma non per questo non deve essere ancora immaginata. E Dragin è abile nel giocare con i vari mezzi a disposizione per rielaborare, con materiali di repertorio e con una messa in scena molto sobria, le sorti di due Paesi: la Jugoslavia e la Romania.

L’espediente narrativo, piuttosto comico, è la visita nel 1947 di Josip Broz Tito in Romania. Accolto come un eroe, come il partigiano che ha combattuto e vinto il fascismo, il leader viene omaggiato di un quadro, La foresta del pittore Ion Andreescu. La storia però prende una piega diversa, i nemici oggettivi sono sempre dietro l’angolo, e Tito diventa rapidamente uno di essi. Per cui il quadro donato dalle autorità rumene improvvisamente si trasforma in una grave questione di Stato. Parallelamente, il dipinto è anche l’ossessione di un critico d’arte che cerca in ogni modo di rintracciarlo per completare i suoi studi su Andreescu. Passano gli anni, le vicende dei protagonisti si intrecciano con quelle della cosiddetta grande storia. La morte di Stalin, l’avvento di Ceausescu, il decesso di Tito. Del quadro non se ne saprà granché. E proprio quando il film sembra sfumare, il registro narrativo cambia radicalmente. Dalla vecchia pellicola si passa al video, dalle tragicomiche vicende che talvolta richiamano alle celebri parodie delle spy-story, si viene catapultati nell’orrore della guerra jugoslava, e nella sanguinosa rivolta che porta all’esecuzione di Ceausescu e consorte. Sono immagini crude, meno di dieci minuti, che hanno il potere di rimanere impresse (certamente più efficaci di quei documentari che martellano lo spettatore per più di un’ora con sangue, spari, bombardamenti, urla e lacrime), come se il regista avesse voluto distrarre la nostra attenzione per eseguire un gioco di prestigio che a sorpresa ripresenta l’oggetto davanti ai nostri occhi sbigottiti. Un’attenzione che spesso, mago o non mago, abbiamo perso e continuiamo a smarrire.