«Il tempo per sostenere i combustibili fossili è scaduto. Il carbone deve essere eliminato». Il monito giunge da António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, a poco meno di un mese dal quinto anniversario dell’Accordo di Parigi sul clima. Quando parla di «sostegno», Guterres restringe immediatamente il cerchio dei destinatari: banche pubbliche e private, compagnie assicurative, fondi pensione. Se la relazione tra banche e comparto dei combustibili fossili è facilmente inquadrabile, meno immediata è l’importanza delle compagnie assicurative nel tenere in piedi quell’industria, responsabile di disuguaglianze sociali, migrazioni forzate e dell’aggravarsi della salute dell’ambiente e delle persone.

Il comparto assicurativo globale si trova infatti nella posizione privilegiata di facilitare una giusta transizione, innanzitutto cessando di assicurare progetti e società che alimentano il riscaldamento globale. Senza la loro copertura progetti fossili quali miniere, centrali termiche, oleodotti e gasdotti non potrebbero operare. Alla fine del 2016, il comparto assicurativo globale gestiva circa 24 mila miliardi di dollari di asset, si intuisce quindi come le decisioni delle compagnie assicurative possano influenzare la direzione dell’economia globale, a cavallo tra combustibili fossili e rinnovabili.

Proprio in considerazione della crescente importanza del comparto assicurativo a sostegno dei combustibili fossili, la campagna internazionale Insure our Future ha reso pubblico ieri il suo quarto rapporto annuale sul tema, non fermandosi al settore del carbone ma valutando anche gli impegni degli assicuratori su petrolio e gas. Il quadro che ne viene fuori non è confortante.

Gli impegni presi sul carbone vanno nella giusta direzione, soprattutto in Europa. Tuttavia, il colosso londinese Lloyd’s e i principali attori statunitensi e asiatici, come Liberty Mutual, Chubb, Tokio Marine e Sompo, sono ancora legati al combustibile fossile più inquinante, responsabile del 40% delle emissioni di CO2. Sul settore oil&gas, le nubi che si addensano all’orizzonte sono ancora più cupe, poiché il comparto assicurativo globale non è riuscito a intraprendere iniziative di rilievo.

Le responsabilità italiane nel contribuire alla crisi climatica in corso non mancano. Assicurazioni Generali, principale compagnia assicurativa del paese (68 miliardi di premi lordi nel 2019) e leader a livello mondiale, pare infatti aver interrotto la sua azione climatica. Nei quattro anni di pubblicazione del rapporto, Generali ha perso posizioni in classifica, scavalcata dai suoi competitor, ben più attrezzati per allinearsi agli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

Generali continua a sostenere in maniera ostinata PGE, la più importante società energetica della Polonia e controllata dallo Stato. Nel 2019 la produzione energetica di PGE è dipesa dal carbone per il 91%. «In base all’ultima strategia aziendale, resa pubblica il 19 ottobre 2020, PGE si propone come una società che diventerà climaticamente neutra entro il 2050, con il 50% degli investimenti destinati alle rinnovabili. Il problema è che per fare ciò la società dovrà cedere i suoi asset di carbone a un ente statale, e quei beni dovranno essere assicurati», commenta Kuba Gogolewski della Ong polacca Fundacja Rozwój TAK – Odkrywki NIE. La cessione degli asset del carbone è quindi una mossa per prolungarne la vita, ma senza il rischio reputazionale ed economico connesso, che ricadrà sui contribuenti polacchi. Nonostante questo, il Leone di Trieste continua a ritenersi soddisfatta degli impegni di PGE in materia climatica.

Generali ha direttive interne – non soggette a pubblico scrutinio – che permettono, in via eccezionale, di assicurare società petrolifere e del gas. Un approccio che stride rispetto a quello sul carbone, caratterizzato da una policy dettagliata e pubblica, per quanto non esente da zone grigie.

* Re:Common