L’immaginazione al potere», si diceva allora. Ma in che senso le cose andarono così?

È vero che il movimento del ’68, e le sue ramificazioni fino alla svolta fatidica del 1978 (rapimento e uccisione di Aldo Moro e della sua scorta), seppero usare in modo innovativo il potere delle immagini, in particolare delle immagini prodotte tecnicamente e condivise in forme non tradizionali?

A rivedere oggi i tanti documenti filmati – in particolare quelli «autoprodotti» – delle occupazioni e delle manifestazioni di quegli anni (penso in particolare al filmato molto notevole della manifestazione di piazza Cavour dell’aprile 1968) un elemento salta agli occhi con un rilievo che ai tempi non fu forse avvertito con sufficiente penetrazione critica.

Accadde, cioè, che la macchina da presa cominciasse ad autopercepirsi come un elemento dell’ambiente, più precisamente: come una componente dello spazio pubblico in stato di agitazione.

E che, a sua volta, questo spazio cominciasse a essere sentito e vissuto anche come un ambiente mediale, costellato di dispositivi (le macchine da presa sempre più leggere e maneggevoli, e successivamente le prime camere digitali) che lo documentavano nel momento stesso in cui esso si costituiva in quanto tale e si faceva teatro di eventi – politici, ma non solo (non si dimentichi che, secondo uno degli slogan dell’epoca, «il personale è politico»).

Si stava forse inavvertitamente avverando la profezia di Dziga Vertov, e del suo Kinoglaz (Cineocchio), cioè una improvvisa «cinematizzazione delle masse» insieme alla formazione spontanea di una rete di Kinoki sempre più ampia?

Certo è che in quegli anni fatidici (né va dimenticato che nel 1969, per la prima volta, due computer dialogarono tra loro a distanza) un generale movimento di «disintermediazione» (come lo chiameremmo oggi) si annunciava nell’universo delle immagini tecniche.

In parallelo con questa emergenza spontanea, accanto al lavoro delle più note agenzie di informazione politica autogestita, la trasformazione dell’immagine da rappresentazione in documento ambientale e testimonianza di vita, in presa diretta e senza intermediari, cominciò a farsi più consapevole e programmatica presso alcuni artisti e cineasti, qualcuno dei quali (e penso a Gregoretti) ‘prestato’ alla televisione.

Esemplari, in tal senso, oltre alle straordinarie anticipazioni di Cesare Zavattini, i lavori di Gianfranco Baruchello, Luca Patella e Alberto Grifi.

 

anna alberto grifi 1972
Anna, di Alberto Grifi, 1972

 

E, di quest’ultimo (con Massimo Sarchielli), l’esperimento forse più innovativo di quel decennio: il film Anna, girato con una videocamera nel corso del 1972.

Alla luce degli sviluppi, all’epoca imprevedibili, che si sarebbero successivamente registrati con la rivoluzione digitale e l’enorme potenziamento dei sistemi e delle pratiche di condivisione, questa «svolta» sessantottina nella percezione dell’immagine prodotta tecnicamente e della sua inclusione «fisiologica» in uno spazio politico (nel senso ampio sopra chiarito) merita un approfondimento teorico (fin qui mancato) e, insieme, uno sguardo critico (possibilmente disincantato) sui suoi sviluppi storici: pensiamo alla funzione delle videocamere nella documentazione e nella ricostruzione dei fatti del G8 di Genova (e al notevole riuso che le riprese di quelle giornate avrebbe consentito in sede di fiction: e penso, per fare un solo esempio, al lavoro di Daniele Vicari), a Zuccotti Park e alle piazze africane e iraniane fino agli episodi più inquietanti di disintermediazione in rete – sintomatici tuttavia di un’ulteriore evoluzione che non va sottovalutata – come le riprese «interne» del matrimonio tra Chiara Ferragni e Fedez.