Il Messico ha accettato di diventare la sala d’attesa per gli Stati uniti» scrive sul New York Times l’analista Jorge Ramos. Il presidente Anadrés Manuel López Obrador (Amlo) la settimana scorsa, infatti, ha alzato le mani: «Continueremo la politica di non scontro con Trump», ha affermato, accettando le richieste della Casa bianca per evitare dazi sui prodotti commerciali messicani.

Così migliaia di emigranti centroamericani dovranno aspettare mesi se non anni dal lato messicano della frontiera per sollecitare asilo politico negli Stati uniti. Ancora non vi è una definizione chiara di questa politica, ovvero se sia un prendere tempo o una resa strategica. «Quello che conta – afferma Ramos – è che il Messico farà quello che vuole Donald Trump: si convertirà nella polizia migratoria degli Usa».

Infatti 6mila uomini della Guardia nazionale messicana sono stati inviati in tutta fretta al confine con il Guatemala per cercare di bloccare il flusso di emigranti che fuggono dalla violenza o dalla fame in Honduras, San Salvador e Guatemala.

Solo che nei piani iniziali di Amlo – e nelle ripetute promesse della sua campagna elettorale per le presidenziali messicane – questa nuova forza dell’ordine era stata istituita per ridurre la criminalità. Ovvero una delle maggiori piaghe – se non la più pericolosa – del Messico: da quando Amlo è entrato in carica, lo scorso dicembre, più di 14mila messicani sono stati uccisi, compresa la comunicatrice Norma Sarabia, colpita mentre usciva di casa (sesta giornalista a essere assassinata quest’anno).

Con il presidente russo Vladimir Putin, Amlo condivide l’idea che «Trump manifesta uno sfrenato egoismo economico» – del resto l’economia è il suo unico risultato positivo – che lo porta a aggredire anche amici e alleati. Come ha scritto il New York Times, «Trump dimostra come sia sempre più sfumata la linea che separa la sicurezza nazionale e la sicurezza degli Usa. Fatto che gli permette di utilizzare poderosi strumenti ideati per castigare i peggiori attori globali del mondo e dirigerli praticamente contro ogni socio commerciale, inclusi Messico, Giappone, Cina e Europa».

Utilizzando la minaccia di dazi progressivamente aumentati dal 5 al 25%, il capo della Casa bianca ha dunque costretto il presidente del maggior partner commerciale degli Usa (il Messico ha 3mila chilometri di frontiera comune con gli Stati uniti e scambi commerciali per 150 miliardi di dollari nei primi mesi dell’anno, secondo i dati di IHS Markit Global Trade Atlas) a cambiare uno degli assi strategici della sua politica estera per non veder compromessa l’economia del paese e dunque la sua scelta di una riforma storica delle leggi sul lavoro. Perciò, oltre che economicamente, Trump destabilizza anche politicamente López Obrador.

Amlo si era insediato promettendo una politica più indipendente da Washington e rivolta verso equilibri multilaterali, specie in America Latina. Ma, come detto, ha dovuto fare una clamorosa marcia indietro di fronte alla prepotenza imperiale dell’«alleato». Infatti il Messico non è l’unico obiettivo dello «sfrenato egoismo economico» e politico di Trump.

Secondo uno dei più noti analista di destra (ferocemente anticastrista) Carlos A. Montaner, quello che il presidente statunitense «sta attaccando è ben più grande di qualsiasi paese. Trump sta sfidando il consenso posteriore alla Seconda guerra mondiale sul fatto che il libero commercio arricchisce il mondo».

Dunque, l’attuale capo della Casa bianca «sta minando le basi dell’egemonia mondiale degli Usa così come è stata costruita nel dopoguerra» – dagli accordi di Bretton Wood alle regole della globalizzazione commerciale. Una tesi condivisa, da «sinistra», anche da Paul Krugman, quando afferma che «la politica di dazi di Trump è strettamente vincolata alla funzione degli Stati Uniti come superpotenza mondiale. L’aspettativa che gli Usa siano responsabili e degni di fiducia – che onoreranno gli accordi che hanno siglato e che, in termini più generali, (la Casa bianca) disegnerà le sue politiche tenendo in conto gli effetti che le sue azioni provocano nel resto del mondo – è fondamentale per questa funzione».

Ma vi è ben di più, sostiene il premio Nobel per l’economia: «Con l’uso dei dazi come garrote contro tutto quello che non gli va a genio, Trump sta riportando gli Stati uniti al tipo di irresponsabilità che avevano esibito dopo la Prima Guerra Mondiale; una irresponsabilità che, anche se evidentemente non fu la unica e nemmeno la principale causa della Grande Depressione, dell’ascesa del fascismo e la conseguente Seconda Guerra Mondiale, aiutò a creare le condizioni per questi disastri».

Tornando al Messico, per Jorge Ramos si tratta di un disastro annunciato. «Il presidente degli Stati uniti è un bullo, un prevaricatore. E già si è reso conto che il Messico ha ceduto subito di fronte alle sue pressioni: così seguirà la stessa strategia (prevaricatrice) per cercare la sua rielezione l’anno prossimo. Il Messico è il nemico favorito di Trump, che ora sa come vincere».