Non è molto risaputo che dopo Malesia, Indonesia e Thailandia, il quarto produttore mondiale di olio di palma è la Colombia. L’investimento nella palma africana ha avuto inizio negli anni ’60, secondo un modello agroindustriale utilizzato anche per altri prodotti come la banana e la canna da zucchero, ovvero quello della monocoltivazione intensiva; il boom dei biocombustibili degli anni 2000 spinse poi a una politica di forte incentivazione della produzione che determinò un’espansione esponenziale delle coltivazioni di palma da olio che fra il 2002 e il 2015 si triplicarono arrivando ad occupare quasi 500 mila ettari distribuiti in 5 regioni del paese, Amazzonia compresa.

Uno dei maggiori impatti ambientali prodotti da questo modello è l’alterazione della struttura idrica delle regioni, perché si tratta di una pianta che necessita di molta acqua: nella stagione secca viene drenata acqua dalle regioni limitrofe alle piantagioni che vengono prosciugate, nella stagione delle piogge invece vengono inondate. In questo modo si sono già perse vaste porzioni di delicatissimi sistemi umidi, senza che le autorità ambientali, in regioni dove spesso le amministrazioni sono deboli e corrotte, lo impediscano. Secondo l’Ideam (Istituto di Idrologia, Meteorologia e Studi Ambientali) nel 2017 la Colombia ha perso 219 mila ettari di bosco, il 23% in più rispetto al 2016. Fedepalma, la Federazione nazionale colombiana dei coltivatori di palma, afferma che il 90% delle coltivazioni di palma sono nate su terreni agricoli utilizzati per l’allevamento di bestiame o per altre coltivazioni, come il riso, il cotone; ma in termini di deforestazione, oltre agli effetti della transizione diretta da ecosistema originario a coltivazione, si devono sommare quelli delle transizioni indirette.
Il problema è che per rimpiazzare queste coltivazioni e questi pascoli vengono poi sacrificati gli ecosistemi primari. Le corporazioni dei produttori di olio di palma hanno sempre avuto una grande agibilità grazie alle loro forti connessioni con membri del governo, in particolare quello del presidente Uribe, che ha governato il paese dal 2002 al 2010 e si è distinto per i maggiori aiuti al settore: solo per fare un esempio, un ex ministro del governo Urbe, attualmente parlamentare, è la moglie del Presidente di Fedepalma; e che dire dell’ex Ministro dell’Agricoltura Carlos Murgas, ora conosciuto come «lo zar della Palma». Attualmente la domanda mondiale è in calo, ma gli imprenditori della palma non sembrano intenzionati far venir meno il loro potere. Esaurita la favola dei biocombustibili buoni per l’ambiente, si punta sul mercato interno promuovendo in particolare l’uso alimentare e cosmetico dell’olio di pama con massicce campagne pubblicitarie. Quindi anche se non con l’accelerazione del primo decennio del 2000, l’espansione è ancora in corso, soprattutto ora che territori prima presidiati dai guerriglieri ora con la fine del conflitto armato sono fuori controllo.

Il modello produttivo incentivato per la palma non lascia spazio a delle coltivazioni più piccole e sostenibili perché l’investimento iniziale è molto elevato: i piccoli proprietari non riescono ad essere competitivi e sono quindi costretti a far confluire i loro terreni nelle cosiddette «alleanze produttive» che non sono altro che enormi concentrazioni di terra, dove le condizioni di lavoro sono quelle di moderni schiavi: costretti a un lavoro usurante e totalitario. Carmenza Blanco è un’economista ambientale che per anni si è occupata dell’impatto socio-ambientale della palma in Colombia.

Ha potuto provare che le industrie della palma pur garantendo ai loro lavoratori salari più alti e una serie di sussidi per le famiglie, non portano nessun tipo di vantaggio nei territori, che rimangono poveri e dimenticati e con indici di violenza più alti. Non è stato facile per la ricercatrice trovare sempre la relazione diretta fra espansione della palma e la violenza paramilitare, perché sin alcuni casi intervenivano anche molti altri fattori: narcotraffico, guerriglia, presenza di comunità afro e indigene; inoltre era quasi impossibile ottenere le informazioni da parte elle amministrazioni. Quello che è certo è che gli episodi di violenza paramilitare connessi all’espansione delle piantagioni di palma ci sono stati. Sono 16 gli impeditori del settore che son stati condannati per connivenza con gruppi paramilitari.
Nel documentario Fronteras Invisibles, che lo scorso anno ha vinto il Festival dei diritti umani di Milano, i registi Nico Muzi e Nicolas Richat hanno dato voce alle comunità indigene, afro e meticce colombiane dei territori teatro di massacri e sfollamenti e dove adesso regna la palma. Fra le imprese coinvolte nell’appropriazione indebita di terra risulta anche la multinazionale italo- spagnola Poligrow, che possiede 7 mila ettari di un territorio, quello di Mapiripan, dove nel 1996 si verifico uno dei peggiori fatti di sangue della guerra civile. Il processo per frode e truffa aggravata è ancora in corso.