«Il piano di Renzi sulla scuola è ispirato ad una politica dell’istruzione coerente con le politiche neoliberali da tutti considerate un riferimento. Su questo non c’erano illusioni da farsi – afferma Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, autrice di un attualissimo e fortunato libro sulla valutazione nell’università e nella ricerca «Valutare e punire» (Cronopio) – Il governo accelera un processo costruito in decenni. L’unica sorpresa è che un governo non eletto si sia impegnato in una trasformazione così ampia».

Qual è il ruolo della valutazione nel «patto» sulla scuola?

È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della formazione continua si chiarisce che i docenti devono raggiungere gli obiettivi “preposti”. Preposti da chi? Chi decide? Sempre più questi obiettivi coincidono con i «portatori di interessi», che alla fine sono solo interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende.

Altro aspetto della riforma è quello del controllo. Anche questo rientra nella valutazione?

Certo. Sono ricorrenti i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto nell’università dal 2011 in poi. Qui forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.

Che cos’è la «meritocrazia» che Renzi vuole introdurre nella scuola? 

Quando è stata istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel 2006. A lui si deve l’ideazione dell’Anvur e già parlava di «equità». In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandole, dalla giustizia e dall’evidenza dell’ordine che riconosce. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo l’ordine sociale esistente. Non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello che si prospetta per la scuola è questo.

Perché l’istruzione è stata bombardata da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?

Il momento centrale per le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999 e definito oggi da Zizek «un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che vediamo all’opera oggi nel progetto renziano: educare al problem-solving, subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una “industria socialista”, secondo la celebre espressione di Milton Friedman.

Perché, quando si parla di «merito», le risposte della scuola sono sempre difensive? 

La forza di questo discorso intimidisce e riconglionisce, come disse Tullio Gregory dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi, ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata interiorizzata, mentre la “cultura della valutazione” – nel migliore dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia – ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. Parliamo di un processo che in più sollecita, come fa Renzi sulla scuola, una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Del resto lo stato valutativo funziona così: solo con la complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione, progetti grandiosi. E bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato.