Nella stanchezza di un cinema americano (o forse occidentale) ripetitivo, in cui anche i moduli stilistici si sono fatti generi (il cupo film polacco, la commedia realista francese) il lento confluire sul mercato di restauri digitali o meno di film significativi del passato porta una boccata d’aria fresca, ricordandoci un tempo in cui dal monolitico Studio System hollywoodiano uscivano film innovativi, racconti moderni della complessità e non solo idiozie spettacolari, adatte a cervelli impuberi. Che non si tratti solo di una nostalgia passatista lo dimostra questo Lettera a tre mogli di Joseph Mankiewicz del 1949 (in sala dal 13 febbraio, a cura di Lab 80). Tre donne della buona borghesia americana ricevono da un’amica una perfida lettera che le avvisa che sta partendo con uno dei loro mariti. Ma quale? Intorno a questo giallo sentimentale ad alta intensità melodrammatica, le donne ripensano, in flashback, alla loro relazione maritale, cercando tracce di una sfaldatura o segnali di pericolo. Finale imprevedibile.

Il film racconta la lettera attraverso una voce fuori campo femminile, quella di Addie Ross, che non si vede mai, ma che mette in guardia le amiche: la sempliciotta interpretata da Jeanne Carin, la scrittrice di radiodrammi Ann Sothern, sposata con il colto Kirk Douglas che disprezza il suo lavoro, e la formosa Linda Darnell, che ha accalappiato un uomo ricco che le garantisce la sicurezza economica.

La «famiglia americana» esce piuttosto malridotta da questo spaccato impietoso, ma anche i mass media subiscono una critica spietata, il tutto proposto in un meccanismo narrativo ben congegnato, e interpretato con misura melodrammatica perfetta- e d’altro canto Mankiewicz era un grande regista di attori, e soprattutto di attrici.

Qui poi era al top della sua creatività di regista/sceneggiatore e non a caso vince l’Oscar per entrambi; ripeterà l’exploit l’anno successivo con Eva contro Eva, altrettanto tagliente e incentrato sui modi della competitività femminile, tema raramente scandagliato sullo schermo e magistralmente interpretato da Bette Davis e Anne Baxter. Fratello di Herman, lo sceneggiatore di Quarto potere, Joseph M era in quegli anni impegnato a combattere lo studio system, dall’interno della Screen Directors Guild, di cui diventa presidente nel 1950, cercando di non farsi travolgere dal maccartismo. Il clima paranoico che sconvolge Hollywood all’epoca stimolava esami di coscienza, volti a cercare nel passato colpe dimenticate o nascoste, o inconsapevoli delitti relazionali. Per questo il cinema di quegli anni è pieno di flash back e trionfa il noir; in questo caso, però, spostando lo sguardo sulla fragilità di un mondo in cui per la donna esisteva solo la realizzazione nella famiglia, e un marito in fuga diventava la peggiore delle disgrazie.