A Gaza manca l’elettricità. Il buio fa paura perché porta con sé il sibilo degli aerei e il tuono delle bombe. Non c’è carburante per avere energia 24 ore al giorno. Quel quartiere accende la luce, l’altro è nell’oscurità.

A Gaza i ragazzi muovono in aria le “bolas” e il buio fa da spalla, l’oscurità completa l’armonia istantanea del movimento.

A Gaza le case vanno ricostruite, dopo un raid degli F16 israeliani. Ma il cemento non c’è, perché la frontiera di Rafah con l’Egitto è chiusa sempre più spesso e perché Israele stabilisce quante tonnellate far entrare in un fazzoletto di terra dove ogni quartiere ha almeno un palazzo sventrato.

A Gaza c’è chi trova una nuova casa sotto il tendone immaginario della scuola di circo: un centro in cui le pareti non sono grigie ma illuminate da colori accesi. Una casa collettiva dove ricostruire la fiducia nella comunità.

A Gaza i confini sono chiusi, prigione a cielo aperto per un milione e 700mila persone. Le merci entrano con i camion da Israele. Chi decide è seduto a Tel Aviv: non entrano le scarpe e si cammina dentro quelle di due anni prima, non entrano stoviglie e i piatti si fanno in casa con l’argilla.

foto di Rossana Zampini
foto di Rossana Zampini

A Gaza i bambini spronano l’asilo che guida il loro carretto di legno blu. E se possono lo trasformano in monociclo, le gambe magre girano rapide i pedali.

A Gaza il mare è vita, ma anche morte. I pescatori che all’alba preparano le reti sanno che se oltrepasseranno le tre miglia nautiche imposte da Israele (gli Accordi di Oslo ne prevedevano venti) rischiano l’aggressione della Marina. Ma sanno anche che, se non le superano, di pesce ne troveranno così poco da non poter sfamare le loro 3mila famiglie.

A Gaza si giocola con tutto quello che capita, anche con i pesci. Il mercato è lungo il porto, la mattina presto trovi il pesce migliore.

A Gaza in tasca o nella borsetta riposa una carta d’identità verde. Diversa dal palestinese che vive a Gerusalemme, diversa da quello di Haifa. Significa che per uscire devi chiedere un permesso alle autorità israeliane. Difficilissimo che te lo concedano. E il più abbordabile confine con l’Egitto è oggi quasi ogni giorno filo spinato.

A Gaza si gioca a carte. I giochi antichi degli anziani al caffè, i giochi nuovi che i bambini inventano nel centro di Beit Lahiya. Qualcuno ha ancora otto anni, qualcuno terdici. Si colorano il viso e fanno una piramide umana. Lanciano una carta, inizia il gioco.

A Gaza i frutti della terra sono una sfida quotidiana. I contadini, mani nodose e occhi scuri, tentano di rivendicarne la proprietà, il diritto di coltivare. Ma in mezzo c’è la buffer zone, zona cuscinetto dove accanto ai pomodori trovi le pallottole di Israele. Il diritto al lavoro diventa una sfida e la terra muore.

A Gaza il pallone ha lo stesso significato che nel resto del mondo. Il gioco più amato, il più antico. Con un pallone tra le mani o tra i piedi conosci i tuoi compagni.

A Gaza non c’è benzina. Il traffico contorto, le auto che corrono accanto alle moto e ai carretti trainati da un asino, scompaiono dalle strade afose e polverose. Dopo le restrizioni imposte dal nuovo governo egiziano, i tunnel sotterranei restano vuoti e con loro le pompe di benzina e i generatori di elettricità. La notte ci si fa luce con le candele e gli incendi sono una minaccia concreta.

A Gaza saltare su una corda alla scuola di circo ti permette di conoscere meglio il tuo corpo, di gestirlo e di averne fiducia. Il fisico e le sua abilità aiutano i bambini a credere in se stessi.

A Gaza, un tempo ricco porto del Mediterraneo e terra fertile, si vive di aiuti umanitari, dei pacchi di cibo delle Nazioni Unite, mera sopravvivenza e nessuna vita perché non sono i gazawi a decidere cosa entra e cosa esce.

A Gaza i vestiti colorati di una bambola sono una terapia, una medicina all’angoscia quotidiana.

A Gaza tra sei anni non si troverà acqua potabile e il mare sarà un ecosistema distrutto dagli scarichi e dall’inquinamento perché, nella Striscia, efficaci impianti di smaltimento dei rifiuti non ce ne sono.

 

foto di Rossana Zampini
foto di Rossana Zampini

A Gaza un piatto sulla testa diventa un ombrello immaginario, lo fai volteggiare e hai meno paura.

A Gaza nei palazzi ci sono ancora i segni della faida fratricida tra i miliziani di Hamas e Fatah che, dopo le elezioni del 2006, ha insanguinato le strade e impedito la riconciliazione per sette anni.

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A Gaza il posto dei buchi delle pallottole lo prendono le palline e, giocolando, il bambino torna creativo, risveglia la fantasia e la concentrazione.

La scuola di circo della Striscia di Gaza è il sogno di decine di bambini che da tre anni seguono corsi di clowneria, acrobatica e giocoleria al centro di Beit Lahiya, vicino al confine nord. Un sogno che presto potrebbe essere realtà, grazie all’impegno degli animatori palestinesi e del sostegno italiano. Se c’è qualcosa che l’assedio israeliano non ha mai tenuto in considerazione, è la capacità di resilienza e resistenza del popolo gazawi.