Quando l’allestimento del Falstaff di Giuseppe Verdi in scena in questi giorni al Teatro alla Scala di Milano (fino al 4 novembre), una coproduzione con Royal Opera House di Londra, Canadian Opera Company di Toronto, Metropolitan Opera di New York e De Nationale Opera di Amsterdam, vi debuttò due anni fa, ricorrevano 120 anni dalla prima assoluta dell’opera proprio al Piermarini e 200 anni dalla nascita del compositore. In quell’occasione il Museo del Teatro acquisì i manoscritti della partitura, dono di Eni e Intesa San Paolo.

La direzione dell’opera, allora affidata con esiti incerti al mozartiano Daniel Harding, ora tocca al verdianissimo Daniele Gatti, che restituisce alla partitura la sua natura duplice. Ci troviamo certamente di fronte a un testamento di ironica delicatezza, una specie di vanitas sorridente e a tratti corrosiva, a una partitura di inaudita complessità armonica e di programmatico understatement melodico, ma in questo medaglione apparentemente distaccato in profondità scorre il sangue del melodramma verdiano di sempre, che richiede trasporto, nerbo, vitalità, ritmo. Gatti fa suo quel tratto sanguigno e lo porta in primo piano, godendo e facendoci godere di un’energia traboccante laddove la commedia la richiede.

L’allestimento è stato affidato a Robert Carsen (regia), Paul Steinberg (scene), Brigitte Reiffenstuel (Costumi) e Peter Van Praet (luci), che hanno deciso di ambientare la vicenda nell’Inghilterra degli anni Cinquanta del Novecento: «un periodo – spiega il regista – in cui esisteva un tipo di scontro di classe molto forte. In quegli anni sorge la nuova middle class, una realtà molto sentita anche negli Stati uniti. È il momento in cui si percepisce il problema dell’aristocrazia inglese che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è entrata in una fase di declino. E il protagonista di questa produzione ha molta nostalgia del suo passato, l’epoca eduardiana». La trasposizione funziona perfettamente, così come funziona il contrasto, eco parodica di quello viscontiano tra il Principe di Salina e don Calogero Sedara nel Gattopardo o di quello tra padrone e servo nel Servo di Losey, tra l’aristocratico decaduto Falstaff, signorile, bisognoso di denaro eppure appassionato di tutt’altro (il cibo, il vino, le donne e ogni altro memento vitae), libertino comme il faut, e il borghese rampante Ford, avido di denaro per il denaro stesso, sgraziato, volgare, ciecamente geloso e stupidamente autoritario.

Delizioso lo spaccato della cucina di Alice, contrassegno più di ogni altra cosa, con la sua pletora di elettrodomestici e accessori, del mondo borghese cui lei appartiene e in cui si consuma la prima crudele beffa ai danni del panciuto gentiluomo. Veniamo al cast. Nicola Alaimo, veterano nel ruolo del protagonista, si è calato perfettamente nella parte del vecchio briccone, sfoggiando una voce estesa, sfogata e un fraseggio accattivante, dai piani ai forti, dai gravi ai falsetti e una presenza scenica «a tutto tondo»; Eva Mei (Mrs. Alice) gareggia in bravura con lui, precisa nell’interpretazione vocale quanto credibile nella recitazione.

Marie-Nicole Lemieux (Mrs. Quicky) ha sfoggiato una voce sontuosa e un fraseggio da attrice consumata, solleticando il pubblico con le sue gigionerie farsesche; Eva Liebau (Nannetta) ha elargito i suoi candidi piani filati, solo uno dei quali in acuto l’ha messa in difficoltà nell’aria finale.
E ancora, Massimo Cavalletti (Ford), Francesco Demuro (Fenton) e Laura Polverelli (Meg) si sono disimpegnati correttamente, ma senza suscitare grandi entusiasmi; scenicamente trascinanti Patrizio Saudelli (Bardolfo) e Giovanni Battista Parodi (Pistola).