Da 23 anni nel cuore della Valtiberina, il mese d’agosto coincide con l’andata in scena di uno spettacolo su una terrazza delle mura medievali dell’antica Anghiari, nome celeberrimo per la battaglia del 1440 tra i fiorentini alleati del papa e i milanesi, ma ancor più noto per l’affresco che quello scontro epocale ritraeva in Palazzo Vecchio, realizzato da Leonardo, e andato disgraziatamente perso. Dunque da più di due decenni sul Poggiolino di quelle mura gloriose, gli abitanti apparecchiano per una decina di sere una vera cena tradizionale, che dalla geometria delle tavole imbandite (oltre che dalla assai rinomata teleria del luogo) prende il nome di Tovaglia a quadri. E tra una portata e l’altra di quella sostanziosa toscaneria culinaria, si snoda un racconto che sempre si rivela sorprendente. Per le tradizioni che va a ripescare (assieme a credenze, leggende, comportamenti e magari pregiudizi), la manifestazione si è affermata, perché da specchio veritiero della vita cittadina, si è sempre più confrontata con la realtà politica e sociale di quella comunità, fino a pochi anni fa uno dei cuori ardenti dell’Italia «rossa». E non mancando mai di farsene anche coscienza critica, per quanto scanzonata e divertente.

Per questo ha potuto raccontare episodi anche drammatici e quasi sconosciuti del passato (come l’esistenza di un lager nazista appena fuori della cittadina), o tracciare analisi impietose (grazie a quel campione certo e attendibile) delle trasformazioni della vita culturale e soprattutto politica dell’intera Italia. I due autori Andrea Merendelli (che cura anche la regia) e Paolo Pennacchini hanno sviluppato negli anni una capacità davvero straordinaria di raccontare per immagini, allusioni, citazioni, evocazioni musicali (grazie anche all’esperta collaborazione di Mario Guiducci). Sono riusciti a sceneggiare una piccola società in transizione, seppur senza mai cedere al dogmatismo di indicare eventuali punti di approdo. Da qualche tempo anche Anghiari ha cambiato il colore della propria amministrazione, come quasi tutta l’Italia del resto, e i due autori non hanno perso il gusto di scavare dentro e dietro i fenomeni, mantenendo intatto il piacere della scoperta e della «malizia». Così, con l’impertinenza di sempre, sono andati ora a mappare lo strapotere tecnologico che pervade ogni momento della nostra esistenza. Non per ridicola ripicca passatista, ma per verificare come certe opportunità finiscano spesso fuori controllo.

Con una associazione certo spinta, ma degna di essere verificata, hanno indagato sulla ricaduta che certe nuove abitudini sociali (come la soddisfazione di qualsiasi necessità per corrispondenza, o l’uso taumaturgico e onnicomprensivo dei telefonini) vengono ad assumere in una piccola comunità dove sopravvivevano antichi ruoli e abitudini sociali. Partendo però dal prezzo di sangue pagato dalla città di Anghiari alla furia sanguinaria della prima guerra mondiale, di cui ricorre quest’anno il centenario della cosiddetta vittoria. Gli autori e i loro meravigliosi attori però non sono certo dei moralisti. Il teatro è un gioco, si sa: in altre lingue addirittura i termini coincidono. E il piacere del gioco, e del travestimento e dell’iperbole, ne è un tratto costitutivo. A cominciare dal titolo: Ci Amazzon (al Poggiolino fino al 19 agosto). Basta spostare l’accento dalla seconda alla prima sillaba, per passare dall’espressione dolorosa di un anghiarese al fronte nel ’15-’18, alla organizzazione planetaria di Jeff Bezos che ti porta a casa qualsiasi cosa trasportabile, nel minor tempo e al minor costo (in primis per la medesima Amazon, come sta faticosamente emergendo dalle lotte dei suoi riders).

In scena così, a fianco alla classica osteria, c’è il negozietto di abbigliamento mandato in rovina dalla concorrenza del colosso della distribuzione; l’ormai inutile officina che riparava ogni cosa, destinata ora a morte sicura se il suo prestante animatore non si trasformasse in una sorta di superman telematico, capace via pc di esaudire le più private fantasie; e alle finestre le linguacce che non perdonano di certe mature signore, anche loro irretite da modernità telematica quanto strafalciona. Non manca l’accogliente rifugio b&b della nostalgica degli Inti Illimani pronta ad accogliere con fede reverente il tardo leader sessantottino che fa dell’antica passione politica convincente merce di scambio, finché non scopre la sua vanità (una lunga vestaglia rossa evoca certe scarpe milionarie su misura). Così come si scopre d’altra parte che proprio certa insoddisfazione superficiale abbia portato tanti ad attraccare a lidi gialli e verdi. Insomma un panorama che ci riguarda tutti, e offre a ognuno la sua scarsa speranza. Ma conoscerlo, a fine cena e dopo molte risate e certe bellissime «riflessioni» in musica, pare già un ottimo risultato.