Dalla considerazione che votare Draghi sarebbe stato «contro il Dna» del Movimento 5 Stelle (Toninelli dixit), all’apertura di fatto di un interlocuzione con l’ex presidente della Bce il passo è stato breve ma intenso. In mezzo c’è stata una fluviale assemblea dei parlamentari grillini che rischiava di trasformarsi nel solito sfogatoio. Fin quando Luigi Di Maio (ma non solo) ha insinuato il tarlo: il governo poteva essere «politico e non tecnico».

Così, nel pieno della notte tra mercoledì e giovedì, al termine dell’assemblea, Crimi ha dovuto tirare le conclusioni e correggere il tiro. Ha spiegato che tra governo tecnico e governo politico c’è una differenza «abissale», per questo il M5S ha il dovere di andare a «sentire» cosa ha da dire il presidente incaricato. Quanto alla posizione iniziale di chiusura al governo Draghi, il reggente ha detto: «Non potevamo restare in silenzio, sarebbe stato letto come accettazione acritica». Quindi, ha argomentato, «ho convocato i capigruppo» e preso una decisione «conforme alla posizione che abbiamo sempre avuto sui governi tecnici».

Fatta questa rettifica, e innestata la marcia indietro, restava solo la questione della coerenza con Giuseppe Conte, in nome della quale Beppe Grillo avrebbe nel pomeriggio di mercoledì posto il veto su Draghi. Ma quando a metà giornata ieri Conte dà il suo via libera, rifiutando di vestire i panni del «sabotatore» e garantendo il suo impegno accanto alla coalizione che lo ha sostenuto fino all’ultimo, la strada si intravede in maniera ancora più netta. A quel punto, trapela anche l’ok di Grillo all’operazione Draghi.
I tre attori in campo (Di Maio, Conte e Grillo) non hanno agito per forza di concerto, anche se le loro mosse hanno finito per convergere verso un’unica direzione, almeno nel breve periodo. L’ex capo politico ha fatto quello che aveva in mente da quando, un anno fa, lasciò la sua carica: «normalizzare» il M5S e farlo diventare una forza di governo «matura», per usare l’aggettivo col quale ieri ha diramato la sua posizione aperturista.

L’ex presidente del consiglio ha rivendicato il suo ruolo di federatore, il suo essere «punto di equilibrio» (direbbe Goffredo Bettini) dell’asse M5S-Leu-Pd. Probabilmente anche quello di leader del M5S. Non è detto che il suo appeal resista, ma è l’unica strada per restare nell’agone politico fuori da Palazzo Chigi.
Il co-fondatore e garante del M5S ha dato seguito alla linea che aveva inaugurato quando diede l’ok all’ingresso della sua creatura nel campo progressista. Tutti e tre, in qualche modo, danno per scontato che il futuro del M5S debba svolgersi nel contesto dell’alleanza che ha retto il secondo governo Conte. Un’alleanza che non a caso qualcuno all’assemblea di mercoledì ha ripreso ha definire «strutturale», utilizzando l’accezione che nel corso degli Stati generali (recenti, ma che a questo punto sembrano lontani un secolo) era stata a furor di critiche della base messa sotto il tappeto. In quella sede, non si erano escluse alleanza ma si era detto che sarebbero state strette decidendo di volta in volta in base alla convergenza sui temi. Proprio dai temi Grillo prende le mosse per motivare i suoi ad andare al tavolo di Draghi. Parla delle lotte del M5S delle origini, dell’acqua pubblica e addirittura della costituzione di una banca statale, ma è difficile che saranno veramente questi i punti programmatici al centro della trattativa. Il succo della questione è che i 5 Stelle che andranno alle consultazioni chiederanno che su anticorruzione, reddito di cittadinanza (ieri Crimi ha diffuso un post Facebook proprio su questo), superbonus al 110% e Mes il nuovo esecutivo non faccia passi indietro.

Alessandro Di Battista ha scritto che dire sì a Draghi sarebbe come ritornare con Renzi. Ma proprio l’antirenzismo è un altro argomento che i favorevoli all’accordo stanno utilizzando. «Se il M5S entra nella maggioranza che sostiene Draghi invalida i tre obiettivi che si era posto Renzi – è il ragionamento – Conte resta in campo come riferimento, l’alleanza col Pd si rafforza e il M5S non si spacca». Delle tre condizioni di successo, quest’ultima al momento è quella più difficile da verificare. Di Maio rigetta ogni ipotesi di scissione e dice che dovranno decidere i gruppi parlamentari. Si sa che tra paura del voto, effetto trascinamento di Conte e Grillo e l’escamotage del governo politico la maggioranza ampia dei parlamentari dovrebbe seguirlo.

Il riferimento alla «maggioranza Ursula», però, implica un sacrificio. Quando nel giugno del 2019 i parlamentari europei decisero di votare la commissione Von der Leyen con popolari, liberali e socialisti, dovettero fronteggiare il dissenso, che poi si è trasformato in scissione, di quattro loro colleghi (su quattordici). Quanti non ci staranno questa volta? Chi tiene il conto delle posizioni considera che al senato, dove gli intransigenti sono risultati più numerosi, potrebbero arrivare a 25, alla camera sarebbero 15. Un tributo da pagare per l’ennesima nuova vita del M5S.