L’Ufficio studi e ricerche della Confindustria radio e televisioni e l’Auditel hanno pubblicato un interessante studio sugli ascolti del 2020, l’anno della pandemia. L’ascolto medio dei programmi trasmessi dal piccolo schermo è cresciuto dell’11,4% sul 2019 con una media di 11,1 milioni di spettatrici e spettatori, che diventano 25,1 nel prime time (+9,3%).

Prevedibilmente, il picco avvenne nella prima fase delle chiusure, quando – tra 24 e il 30 marzo- 15,3 milioni di persone fruirono della scatola nera, con un balzo di ben il 49,1% sull’anno precedente. Sei ore di esposizione al giorno, contro i quattro del ’19. Analogo e persino maggiore fu l’aumento percentuale nell’ascolto attraverso gli strumenti digitali.

Un anno di intenso cambiamento delle attitudini del consumo, che ha aperto la strada al grande affare della migrazione degli apparecchi per abilitarli allo standard DVB T2 con il quale si potranno ricevere i canali. Viene in mente, con rabbia e malinconia, uno dei tanti disastri combinati dall’ex ministro Gasparri, che fece abrogare la norma sul decoder (unico e aggiornabile con una semplice card) contenuta nella vecchia legge n.78 del 1999.

Sul versante intrecciato delle telecomunicazioni, l’esperienza ci ha disvelato – invece lle reti. La percentuale di connettività ad almeno 100Mbp/s nel 2020 era ancora ferma al 25% del paese, contro il 60% della media europea; e quella a 30Mbp/s era il 60% contro il 77% della Ue.

Un effetto concreto e visibile si è visto nei processi dell’educazione a distanza, con un terzo delle studentesse e degli studenti privi di un accesso adeguato. Persino il rito pagano del calcio è incorso – con DAZN– nei buchi della copertura. Per non parlare delle difficoltà ad utilizzare l’ormai normalizzato streaming.

Insomma, la pandemia ha reso ancora più evidente la storica asimmetria tra le fortune (politiche, innanzitutto) della televisione generalista e gli stenti della banda larga e ultralarga. Là siamo in cima alla classifica, qui in fondo. Si sono sentiti in parlamento calorosi impegni promessi dal ministro dell’innovazione tecnologica Vittorio Colao, in riferimento alle opportunità del Recovery Fund. Per l’intanto, ciò che emerge è il ritorno indietro, alla prima casella del gioco dell’oca, della vicenda della rete unica pubblica. Sembrava che si profilasse, finalmente, un disegno di qualche respiro, ma sembra riaprirsi il Risiko.

Si tratta, insomma, di analizzare con rigore l’eredità dell’anno dell’esplosione virale, per comprendere che i dati venuti allo scoperto ci interpellano sull’urgenza di un eco-sistema digitale alternativo. L’attuale tendenza, infatti, porta con sé l’elefantiasi della logora televisione di sempre e l’incremento del digital e del cultural divide.

Per cinica inerzia, l’universo comunicativo vedrà aumentare la distanza tra ricchi e poveri: tanto in senso materiale, quanto nelle opportunità offerte all’immaginario. Su tali temi si terrà dal 16 al 18 aprile prossimi un’iniziativa proprio sulla lezione del 2020 (www.lalezionedel2020.it), costruita su 22 panel e oltre 100 oratrici ed oratori.

Uno dei capitoli riguarderà il capitalismo delle piattaforme e la questione digitale, per delineare frammenti di strategia, con una specifica attenzione ai rischi insiti nella sorveglianza collettiva cui le tecniche ci hanno condannato. Per ciò che attiene alla televisione, è essenziale coniugare quantità delle audience e qualità dell’offerta.

Per esempio, se è vero che le fiction si sono rivelate la base fondamentale della programmazione, l’informazione classica è in affanno e pericolosamente omologata o subalterna. Il governo Draghi va bene a prescindere, questo è il leit motiv.

Non mancano le eccezioni, ovviamente. Rubriche come Presa diretta, Report (eccellente la puntata di lunedì scorso, con oltre tre milioni di fruitori e il 12,07% di share), e «Che ci faccio qui», sono tutti un buon esempio di come dovrebbe essere il servizio pubblico. Così la coraggiosa messa in onda in prima serata de La Traviata il 9 aprile, seguita da una platea milionaria.