Dei molti milioni di italiani che il 4 maggio sono tornati al lavoro, 3 su 4 erano uomini. C’è stata discussione su questa disproporzione, così come su quella, ben più impressionante e molto meno motivata dalla tipologia delle mansioni coinvolte, che riguarda la composizione delle diverse task force chiamata ad assistere il governo nelle sue decisioni, dove le donne sono pochissime.

Impossibile non associarsi a chi chiede che le donne abbiano un ruolo maggiore nei processi decisionali, a tutti i livelli. E non solo per ossequio a criteri di pari opportunità, ma perché appare evidente che in molti campi le competenze delle donne sono del tutto pari a quelle degli uomini, e in alcuni senz’altro superiori.

Ma il compito della componente maschile in questa drammatica situazione va oltre il riconoscere ruoli e diritti e competenze delle donne, e dividere il potere e le responsabilità.

Se 3 sui 4 milioni di italiani rientrati nei loro posti di lavoro erano uomini, vuol dire che questi stessi 3 milioni, assieme a molti altri che ancora non sono rientrati al lavoro — per non pochi dei quali lo stesso rientro è in dubbio a causa del crollo della domanda di lavoro – sono rimasti a casa per due buoni mesi.

Che hanno fatto? Chiusi i bar, il campionato, scomparse le abituali fonti di svago, come hanno impiegato il tempo? In attesa di qualche indagine che ci fornisca qualche dato, possiamo immaginare che, dipendendo anche dall’età e dalla condizione sociale, si siano dedicati a qualche lavoro domestico non routinario; abbiano letto di più il giornale e, magari, qualche libro; passato molto più tempo a scorrere la rete, a chattare (in questo non sono inferiori alle donne), a cucinare, a riassettare.

Certo, a fare la spesa. Qualcuno ha lavorato in modalità da remoto. Probabilmente, una maggioranza avrà anche aiutato i figli nella didattica a distanza, avrà giocato con loro, mostrato qualche foto, raccontato qualche storia…

Meno incertezza e variabilità c’è su quello che hanno fatto le donne. Stante anche la minore disponibilità di aiuti esterni, i lavori domestici avranno preso non poco tempo. A questo va aggiunto l’eventuale lavoro da remoto, più i figli da seguire, più i loro (dei figli) padri a pranzo oltre che a cena. Nella gran parte dei casi, più lavoro del solito, più preoccupazioni, e più consapevolezza e attivismo (ad esempio, i tanti appelli a riaprire le scuole sono stati sottoscritti quasi esclusivamente da donne).

E probabilmente vi sono state minori differenze tra la dirigente d’azienda e la professionista e la casalinga o l’operaia di quanto si sia potuto verificare tra gli uomini.

Se è stato così, e non ci sono molti dubbi che sia stato così, è un vero peccato. Che questo tempo Covid non sia stato usato per una più equa distribuzione dei compiti, sia domestici che educativi. Che non si sia iniziato a colmare questo spazio che ancora separa la società italiana e le famiglie italiane da una più equilibrata, e produttiva, distribuzione di opportunità tra generi.

Conserviamo peraltro la convinzione che qualcosa, qui e là, in una minoranza dei casi, si sia mosso. Che qualche uomo, soprattutto qualche padre, abbia avuto modo di scoprire dimensioni nuove da trovare per il proprio tempo, non ultima quella educativa. Che non si limita all’assistenza tecnica all’uso del pc o dei software che consentono la comunicazione a distanza, o alla soluzione di esercizi, ma consiste soprattutto nel delineare scenari, far emergere desideri, visioni, a cui bambini e ragazzi, bambine e ragazze sono particolarmente pronti, ma non lo saranno per sempre.

Di padri che oltre che a portare reddito, condividano i carichi domestici e portino linfa educativa e visioni c’è bisogno, in fondo, non solo nelle famiglie ma nelle comunità e nella società intera.

 

*Pediatra, presidente del Centro per la Salute del Bambino di Trieste, consulente OMS e UNICEF per programmi sullo sviluppo infantile precoce