Se, come dice Hegel, la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero, l’ultimo libro di Lucrezia Ercoli Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer (il melangolo, pp. 107, euro 9), ci dimostra due cose: primo che la cosiddetta pop filosofia italiana è quello stile che salva la teoria dalle secche accademiche e la rende viva e capace di cogliere lo zeitgeist, secondo che il fenomeno Ferragni incarna effettivamente lo spirito del tempo.

A CHI OBIETTASSE che non bisogna confondere il presente con l’attualità, risponderemmo che il nostro presente è quello in cui la Storia con la esse maiuscola è stata sostituita dalle stories su Instagram e i 15 minuti di Warhol, quelli della società affluente, sono diventati i 15 secondi della società del precariato diffuso e della riproducibilità digitale.
Quando la tv, e anche il cinema, la radio, i giornali vengono sostituiti definitivamente dai social media, bisogna provare a mettere in campo una ricerca che sulle tracce di Benjamin e Kracauer, di Barthes ed Eco – più volte citati da Ercoli – riesca a cogliere il portato della trasformazione in corso.

OCCORRE CAPIRE come cambiano le architetture della comunicazione, insieme a quelle dell’intelligenza, dell’estetica e della politica. Farlo studiando accuratamente la fenomenologia di una delle principali «divinità» contemporanee ci permette, come fa questo libro, di scoprire la coscienza sociale contemporanea oggettivata in Santa Chiara e nello storytelling quotidiano messo in piedi dalla sacra famiglia Ferragnez. A dimostrare quanto sia teoricamente rilevante questo fenomeno, al di là di inutili e controproducenti snobismi, basterebbe ricordare il post con la fotografia della nostra eroina davanti alla Venere di Botticelli agli Uffizi: un solo scatto ha raccontato quanto sia radicalmente cambiato il ruolo dell’arte, delle istituzioni artistiche e del pubblico all’interno dei musei. Una profanazione per chi è sempre pronto a difendere i buoni valori di una volta, quando l’operaio non voleva mica il figlio dottore, e sarà certamente per un’ironia della sorte che gran parte di questi intellettuali conservatori si dichiarino di sinistra.

L’INCAPACITÀ DI MOLTI nel cogliere la raffinatezza di questo reenactment – nel 1956 Jayne Mansfield era stata fotografata da Silverstone davanti alla Venere di Milo al Louvre – restituisce tutta la complessità che sta dietro a un’operazione che reinventa le forme della narrazione e, come dice Ercoli, «rappresenta molto di più di un progetto di marketing vincente».
Ferragni «incarna un romanzo di formazione per nuove generazioni, immerso fino al collo nella cultura di massa e nel sistema dei consumi». Se un appunto si può fare è che dentro il sistema stesso sono possibili narrazioni altre che non ripropongano il modello di una famiglia fin troppo tradizionale. Ma questo è un limite del progetto Ferragnez e non del libro, che rimane uno dei saggi più brillanti tra quelli usciti negli ultimi mesi.