Cosa nostra torna a sparare a Palermo. Lo fa dopo tre anni di silenzio. In pieno giorno. E soprattutto alla vigilia dell’anniversario della strage di Capaci. Una coincidenza? Forse, comunque un segnale inquietante in una città che si appresta ad accogliere la nave della legalità con le gigantografie di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, mentre nell’aula bunker dell’Ucciardone, dove si tenne il maxiprocesso al gotha della mafia, vengono definiti i preparativi per le celebrazioni, col capo dello Stato Sergio Mattarella e il ministro dell’Interno Marco Minniti.

I killer hanno sparato alle 7.50. La vittima è Giuseppe Dainotti, boss dal cognome pesante nel mandamento di Porta Nuova. Era uscito dal carcere appena un anno fa dopo avere scontato in cella una condanna a 25 anni per omicidio, droga e per una rapina miliardaria al Monte dei Pegni compiuta nel 1991. L’agguato in via D’Ossuna. La strada è un budello, nel cuore del quartiere popolare della Zisa, dove ci sono diverse piazze di spaccio di droga. Dainotti era in bici quando due persone lo hanno freddato con tre colpi di magnum 357. A meno di trenta metri c’è uno dei due ingressi dell’istituto Sant’Anna che ospita la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria, gestita dalle suore. Proprio una di loro era lì ma ha raccontato di non aver visto nulla: “Ero nel portone, erano entrati alcuni ragazzini, ma non abbiamo sentito nulla. Solo attorno alle 8 le sirene della polizia. Abbiamo rassicurato tutti i genitori che dentro l’istituto il clima è rimasto sereno”.

I colpi li ha uditi una donna tunisina, che abita in un appartamento a piano terra a pochi metri del luogo del delitto. “Ho sentito due scoppi, mi sembravano giochi d’artificio, perché qui si sparano a qualunque ora – ha riferito – Mi sono affacciata e ho visto un uomo a terra che perdeva sangue dalla testa. In strada non c’era nessuno”. E ha aggiunto: “Poco dopo è arrivato un ragazzo con una maglietta celeste. Gridava ‘zio Peppino zio Peppino’. Subito dopo sono arrivate le auto della polizia e dei carabinieri. Non avevo mai sentito colpi di pistola. Una volta che mi sono resa conto che era stato commesso un omicidio sono rimasta impietrita”.

Ma chi è Dainotti? Era considerato un traditore per una parte di Cosa nostra che voleva ucciderlo e per questo veniva soprannominato ‘Gano di Magonza’; è stato il braccio destro del macellaio Totò Cancemi, ex boss di Porta nuova poi pentito e morto nel 2011. Entrato e uscito da decine di inchieste e da diversi penitenziari, Dainotti aveva lasciato la galera definitivamente nel marzo 2016. Venne scarcerato, nonostante la condanna all’ergastolo, grazie a una sentenza della Corte Costituzionale che bocciò il cosiddetto “ergastolo retroattivo”, giudicando illegittima una norma che, in determinati casi, consentiva retroattivamente l’applicazione del carcere a vita anziché quella della pena più favorevole dei 30 anni. La Cassazione, in forza del verdetto, dovette commutare in 30 anni diverse condanne all’ergastolo, tra cui quella di Dainotti. La pesante condanna gli era stata inflitta per l’omicidio, col metodo della lupara bianca, di Antonino Rizzuto, ucciso nel 1989. Ma il boss era stato indagato per altri omicidi tra cui quelli di Umberto Fascella e di Antonino Silvestri.

Imputato al primo maxiprocesso “u zu Peppino” avrebbe riciclato gran parte del bottino della rapina al Monte dei pegni della Sicilcassa nel 1991: 18 miliardi di vecchie lire si disse all’epoca. Il padrino corleonese Totò Riina avrebbe ordinato che i gioielli in oro rubati alla sezione credito della banca fossero sciolti per farne dei lingotti che sarebbero stati distribuiti ai capi mandamento della città, che a loro volta li avrebbero riciclati attraverso dei prestanome. Sull’omicidio sono due le piste privilegiate dagli inquirenti. La prima ruota attorno a Gregorio Di Giovanni, altro mafioso di Porta Nuova. Scarcerato da poco, come il fratello Tommaso, è tornato all’attenzione dei carabinieri perché ritenuto il mandante dell’omicidio del penalista Enzo Fragalà. Indebolito dall’arresto di alcuni suoi uomini, finiti in cella proprio per l’agguato all’avvocato, potrebbe aver deciso di punire Dainotti che avrebbe approfittato delle ultime operazioni dei carabinieri per conquistare potere nel mandamento.

L’inchiesta, coordinata dal pm Caterina Malagoli, prende in esame anche l’ipotesi della vendetta “ritardata” dei nemici storici di Dainotti, i boss Di Giacomo che, già nel 2014, avevano deciso di toglierlo di mezzo appena fosse uscito dalla galera. Giovanni Di Giacomo l’aveva condannato a morte dal carcere. Contro il boss aveva vecchi risentimenti. Secondo le ricostruzioni dei magistrati, Salvatore Cancemi aveva chiesto proprio a Dainotti di uccidere Di Giacomo. Agli antichi dissapori si univa però il timore che il vecchio capomafia, scarcerato, potesse creare problemi. Il delitto, però, sfumò anche perché Giuseppe Di Giacomo, fratello del boss, incaricato di eliminarlo, venne assassinato.