Il dibattito sulla secolarizzazione, e sulla sua crisi, ha ormai una lunga storia alle spalle. La discussione si è fatta più densa dalla seconda metà del Novecento, a partire cioè dall’ascesa e poi dal rapido declino di quella Golden Age che, secondo alcuni, avrebbe dovuto segnare l’approdo definitivo a una società senza Dio.
La riflessione sull’uscita di scena (o meno) delle religioni è stata internazionale e culturalmente frammentata. Ha compiuto quindi un lavoro davvero meritorio Paolo Costa, filosofo presso la Fondazione Bruno Kessler di Trento, nella sua sintesi analitica del dibattito da poco pubblicata nella prestigiosa collana Biblioteca di teologia contemporanea (La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione, Queriniana, pp.224, euro 18). La ricostruzione prende le mosse dalla crisi della secolarizzazione come categoria analitica del presente. Siamo nei primi anni Sessanta, nella prospera Germania occidentale, dove si svolge il settimo Congresso tedesco di filosofia.

IL PARTERRE è di alto livello – tra gli altri, Voegelin, Gadamer, Habermas, e Böckenförde. Come osserva Costa, il convegno è celebrato «nel pieno del boom economico europeo, quando l’ottimismo si respira ovunque». Eppure, è proprio in quella sede che inizia lo smantellamento della categoria nella sua versione classica, che vedeva nella secolarizzazione il declino o la «metamorfosi sostanziale» del religioso. La relazione di apertura di Karl Löwith, già autore di Significato e fine della storia, in cui si era posto l’obiettivo di smascherare il carattere in ultima istanza «teologico» della «modernità», viene contestata apertamente.
Si stagliano, in particolare, l’intervento di Hans Blumenberg e la sua critica alla «genealogia negativa». In quella sede e nel suo La legittimità dell’età moderna, il filosofo affronta l’avvento della modernità come un «rimaneggiamento dello spazio delle possibili soluzioni ai dilemmi ereditati dalla teologia cristiana». Per Blumenberg, il problema vero è quindi riflettere sul significato autentico della svolta intellettuale che ha permesso la comparsa di un pensiero autosufficiente. Su questo punto, Costa chiama in causa anche le teorie del sociologo britannico David Martin, figura nodale nello sviluppo successivo della discussione.
A lui si deve il merito di aver abbandonato definitivamente la visione teleologica della secolarizzazione che confondeva il declino delle chiese con quello della religione in sé. Sono queste – spiega Costa – le premesse di quel cambio di paradigma che sarebbe diventato egemonico con Charles Taylor e il suo A Secular Age. Con questo testo, datato 2007, arriva a maturazione una nuova prospettiva focalizzata non più su ciò che è scomparso, ma sono cosa è stato aggiunto in una società in cui le pratiche religiose sono ormai un frammento della vita sociale e un oggetto della scelta individuale.

COME OSSERVA Costa, nella grande narrazione tayloriana, calata finalmente in un panorama multireligioso, affiorano nuovi patterns quali la cultura dell’autenticità, il primato della ricerca della felicità personale, il relativismo culturale e la tendenza al rifiuto delle mediazioni. In questo contesto, il religioso risalta come una tendenza dell’umanesimo moderno a superarsi, ma inevitabilmente si scompone e si frammenta.
All’autore non resta che seguire il dibatto più recente, animato da coloro che chiama i «manutentori del teorema», tra i quali rientra Marcel Gauchet, e, per altri versi, anche Habermas. Le pagine dedicate alla teoria del filosofo tedesco sulla «post-secolarità», elaborata a partire dal trauma dell’11 settembre, evidenziano bene le criticità di una visione che è diventata anche il campo su cui si sono esercitate le speculazioni confessionali di parte cattolica (esemplare la discussione pubblica con Ratzinger nel 2004).

DI CERTO, sostiene Costa, in tempi recenti l’onore della prova è passato dai sostenitori ai critici della teoria classica e di tale passaggio hanno beneficiato anche i sostenitori della presunta «riscossa globale» della religione. La secolarizzazione – scrive – rimane un «concetto di processo, col quale si aspira a catturare una trasformazione: la metamorfosi da una condizione che si vorrebbe nota a un’altra, familiare, ma sfuggente». Un concetto-manifesto e inevitabilmente una «cartina di tornasole ideologica».