Indigna il fatto che venga indagato per omicidio volontario il povero pensionato di Vaprio D’Adda che ha ucciso il ladro entrato notte tempo nel suo villino, o che un ladro, gravemente ferito a colpi di arma da fuoco dal derubato, abbia ottenuto dai giudici un cospicuo risarcimento o che venga messo sotto processo il rapinato che ha freddato (con un’arma vera) due rapinatori (armati di un’arma giocattolo).

Ma non è questione di “buonismo” se magistratura e collettività pretendono che, nella difesa dei propri diritti, i cittadini non si trasformino in vendicatori con licenza di uccidere.

L’esercizio della forza da parte di un privato cittadino minacciato nei suoi diritti è regolata da un ben diverso bilanciamento degli interessi che sono alla base di uno Stato di diritto. Lo Stato, che ha l’esclusivo monopolio della forza, deroga a tale monopolio solo in casi eccezionali, quando la minaccia al proprio o all’altrui diritto sia tale da non consentire alcuna alternativa.

Certo, non è mai facile stabilire quale sia il confine tra la legittima difesa ed un uso eccessivo della violenza, quale sia la proporzione fra diritti di qualità diversa (la vita, l’integrità fisica, la proprietà …). I giudici sbagliano nell’applicare la legge? Può darsi. Sbagliano nel condannare cittadini che, travolti dall’ira, aprono il fuoco contro ladri in fuga? A volte sì. Sbagliano nel condannare chi ben avrebbe potuto richiedere l’intervento della polizia e si è invece fatto giustizia da sé? Certamente capita che i giudici possano sbagliare nel non facile esercizio della giurisdizione. Ma si tratta quasi sempre di questioni controverse, nelle quali è difficile ricostruire i fatti ed apprezzare scenari psicologici nei quali nessuno ha a disposizione una bilancia per pesare, in una manciata di secondi, l’intensità e la qualità delle proprie emozioni, e le conseguenze delle proprie reazioni.

E’ facile, di fronte a casi come quelli che di recente sono rimbalzati sulla cronaca, stimolare il tracimare dei sentimenti più viscerali, il risentimento sociale, i malesseri profondi di una società che si sente insicura e spesso minacciata dal crimine. Ma non è questo il compito della politica e dell’informazione. Ci si aspetta, in casi come questi, che il giornalista faccia soprattutto cronaca ed opera di verità, e che la politica fornisca gli strumenti per poter comprendere come una società civile non possa fare a meno di alcune regole fondamentali, e che il problema è, casomai, quello di applicarle correttamente ed omogeneamente tali regole.

La società che, altrimenti, si propizia è una società nella quale nessun giudice giudica i comportamenti dei cittadini (e tanto meno quelli delle forze dell’ordine), nessuno valuta se si sia condannato a morte un ladro di biciclette, se sia fatto legittimo uso delle armi contro un borseggiatore, se piuttosto che chiamare il 112 si sia preferito, troppo sbrigativamente, usare la doppietta tirata fuori dall’armadio.

L’informazione ha un compito alto e delicato, ed è quello di formare una opinione pubblica consapevole dei limiti della giustizia, ma anche della sua insostituibilità. Una società che lascia liberi i cittadini di difendere, come meglio credono, la loro proprietà, senza lacci e lacciuoli, senza bilanciamenti, senza limiti e senza inutili leggi, è un Far West redivivo nel quale ogni individuo, esente da qualsivoglia possibile rimprovero, si sostituisce alla forza pubblica, al giudice e, in fin dei conti, allo Stato. Un individuo che, alla fine, fattosi legge, non tollera più alcun controllo e finisce come quel tale che tempo fa ha preso a colpi d’arma da fuoco un autovelox, intendendo anche questo, in fondo, come un insindacabile gesto di legittima difesa.

* L’autore è Segretario dell’Unione Camere Penali