C’era una volta il centro-sinistra. Confesso che mi riesce difficile rileggere la storia politica in chiave di favola, anche se il richiamo compulsivo al tempo dei governi di Romano Prodi sembra prodotto da una sorta di incantamento.

Un richiamo che rimanda a una mitica «età dell’oro» del discorso pubblico, che evoca narrazioni suggestive. Non manca neppure una strega cattiva, che fu quel Bertinotti che in anni lontani dalla crisi disastrosa del capitalismo finanziario osava proporre un tema che oggi torna più grave ed esplosivo che mai: la redistribuzione del lavoro attraverso la riduzione dell’orario di lavoro, a fronte di una rivoluzione tecnologica che inghiotte lavoro ed espelle lavoratori.

Dunque, c’era una volta. Non discuto le buone passioni e le buone ragioni di quella stagione, ma non capisco il senso di una visione apologetica di ciò che viene sradicato dal suo contesto storico e confezionato come una formula salvifica per l’oggi, a prescindere da tutto ciò che è successo col Pd e nel Pd, prima durante e dopo l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi. E’ come se una nuova sinistra potesse sorgere solo da una depoliticizzazione della propria fondazione, senza guardarsi allo specchio e rimuovendo le sconfitte.

È sufficiente immergersi nelle acque sorgive e battesimali del sentimento? Fare cose buone, incontrare il civismo, essere garbati, propositivi, indignati ma senza estremismi? Esaurire la funzione della sinistra nell’edificazione di un centro-sinistra felix, cioè auspicabilmente orfano di quel trattino che ancora separa il centro e la sinistra? Nulla da dire sulle indicazioni di galateo politico: non immiserirsi nella dialettica dell’insulto, criticare la violenza che militarizza e privatizza lo spazio pubblico, cercare sempre un campo largo in cui costruire il senso di un agire collettivo. Ma ciò che manca è tutto il resto, cioè la politica: manca per il passato e per il presente.

Cosa c’era una volta? Addirittura una proiezione planetaria (l’Ulivo mondiale) di quella alleanza politico-sociale il cui cemento ideologico era il riformismo, inteso come compromesso tra progresso e liberismo. Cosa ha ferito e poi fermato l’irresistibile ascesa delle coalizioni riformiste? Perché l’Europa è largamente egemonizzata dalle forze conservatrici e rischia la deriva drammatica del “sovranismo” nazionalista e para-fascista? Il centro-sinistra ha qualche conto da regolare con la concreta costruzione di una integrazione europea che ha marginalizzato la democrazia e i popoli e ha “costituzionalizzato” il comando liberista?

E ci si può accontentare oggi di ripiegare sulle “due velocità” di un continente culturalmente afono e politicamente desaparecido?

C’era una volta il centro-sinistra, con un suo spiccato orientamento alla difesa di diritti sociali e libertà civili: ma non è quella anche la volta che si è cominciato a deregolamentare il mercato del lavoro, a teorizzare le virtù di una precarietà che per pudore veniva chiamata flessibilità, a spingere gli apparati della formazione di massa verso una forma di aziendalizzazione che dequalifica e frantuma i saperi? Non è quella la volta che si è aperto più di un varco alla deriva securitaria della destra, con l’invenzione della detenzione “amministrativa” per gli stranieri non regolari? E quell’altra volta che, per intervenire pesantemente sulla materia previdenziale, si è contrapposto il futuro dei giovani al presente dei vecchi, non c’entrava il centro-sinistra? Solo domande in libertà, per dire che il passato va interrogato piuttosto che celebrato.

E oggi, cosa vuol dire centro-sinistra? Vuol dire che è necessario un compromesso tra forze democratiche per dare una prospettiva di governo all’Italia? Bene: c’è qualcuno che lo nega? Vuol dire che vanno valorizzate tante buone pratiche amministrative che, nelle città e nelle Regioni, rendono ancora spendibile la formula centro-sinistra? Ed io ripeto: c’è qualcuno che lo nega? Il punto è un altro e non vale la pena di girarci attorno. La politica non è la somma algebrica delle politiche (questo mi piacerebbe sommessamente dire a Giuliano Pisapia). La politica non può non partire da uno sguardo sistemico sulla realtà.

La crisi e le risposte che le élite hanno dato alla crisi hanno cambiato la scena del mondo, hanno avvelenato le viscere della terra, hanno squadernato una questione sociale dirompente: questo capitalismo finanziario genera diseguaglianze che sono tsunami che colpiscono la convivenza e possono travolgere il senso della democrazia. Il nuovo fascismo nasce dentro la pancia della rivoluzione liberista, non lo vinci con l’etica o con l’estetica, o col richiamo alla responsabilità contro i barbari che avanzano.

La barbarie comincia con lo schianto del ceto medio, la generalizzazione del lavoro servile, la povertà di reddito e di servizi, il degrado della dignità umana, il muro innalzato contro chi fugge dalle guerre, il dimagrimento del welfare, l’ingiustizia sociale che si fa norma di legge. Il populismo rischia, nei nostri discorsi, di divenire un feticcio polemico se non si va alla radice del problema: se la sinistra non fa il suo mestiere, allora la destra entra nelle vene della società. Allora il nazionalismo, il razzismo, la fobia del diverso, diventano l’alfabeto del rancore sociale. E se la sinistra diventa solo un’allusione allora il centro-sinistra non sarà altro che una illusione.