Dopo dieci anni tondi dalla prima edizione originale viene finalmente tradotto anche in italiano il classico di James Paul Gee: What Video Games Have to Teach Us about Learning and Literacy. Lasciamo stare il fatto che i traduttori dimostrano di conoscere poco i videogiochi (ad esempio traducendo “boss” con “capo” anziché con “mostro/antagonista particolarmente potente di fine livello”, “cut scene” con “scena tagliata” anziché con “animazione non interattiva d’intermezzo”, ecc.) ma il peggior servizio al volume è compiuto da chi ha deciso il titolo italiano: Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale (pubblicato a cura di Pier Cesare Rivoltella da Raffaello Cortina Editore; 213 p., € 19,80). Lo stesso Gee, come afferma nella conclusione scritta successivamente alla pubblicazione della prima edizione, quando andava a presentare il suo libro si trovava di fronte persone convinte che la sua tesi fosse l’utilizzo a scuola dei videogiochi. In realtà il libro di Gee non si focalizza né sui videogiochi né tanto meno (anzi proprio per nulla) sulla scuola digitale. La traduzione precisa del titolo è: cosa i videogame hanno da insegnarci sull’apprendimento e sulla “literacy” (“literacy” è un termine di non semplice traduzione che letteralmente significa “alfabetizzazione” ma non esclusivamente in campo linguistico, piuttosto come processo di apprendimento delle basi fondamentali di qualsiasi disciplina). Il focus del volume è pertanto precisamente l’istruzione e quanto essa può essere migliorata prendendo ad esempio dalle pratiche dei migliori videogiochi.

La tesi di James Paul Gee, tra i maggiori linguisti statunitensi, è che i videogiochi contengono principi di apprendimento – nel volume ne sono individuati 36 – che, se applicati anche nella scuola, possono significativamente stimolare e migliorare l’insegnamento, l’approccio allo studio ed i risultati di ragazze e ragazzi.

Gee non sottovaluta i giudizi negativi nei confronti dei videogiochi (“una perdita di tempo?”) e neppure i rischi ad essi connessi (la violenza) ma tuttavia osserva come ragazze e ragazzi di ogni età, per non parlare degli adulti, siano sempre più presi da tale attività, tentando e ritentando di ottenere risultati ottimali (superare un livello, sconfiggere un “boss”, risolvere un enigma, ecc.) e si chiede come si possano ottenere gli stessi risultati nelle discipline scolastiche. La risposta di Gee non è banalmente: utilizzando i videogiochi all’interno delle discipline scolastiche (i “serious game”) o “digitalizzando” la scuola. Gee al contrario ci conduce per mano ad analizzare una serie di buoni videogiochi – in particolare: Pikmin, Arcanum, Deus Ex, Tomb Raider: The Last Revelation, Return to Castle Wolfenstein, System Shock 2, Sonic Adventure 2 Battle, Under Ash, Operation Flashpoint: Cold War Crisis, Metal Gear Solid, Half-Life, EverQuest e World of WarCraft – verificando quali dei principi d’apprendimento che i videogiochi stessi utilizzano per essere appassionanti siano applicabili anche all’interno delle aule scolastiche. Prendiamo ad esempio uno tra i più conosciuti – e commerciali – del gruppo, l’episodio di Tomb Raider: che cosa avrà questo gioco, stigmatizzato tra l’altro per proporre un’immagine stereotipata del corpo femminile, da insegnare agli insegnanti? Nei primi livelli di questo gioco una giovanissima Lara Croft viene iniziata dal suo mentore, il professor Werner von Croy, all’esplorazione archeologica. Dati i pericoli e le trappole dell’ambiente, più volte il professore raccomanda a Lara di seguire scrupolosamente le sue istruzioni. Gee ci fa notare però che se il videogiocatore si attiene diligentemente ad esse si perde buona parte dei bonus presenti nei livelli. Ecco allora che il giocatore è incoraggiato – in un ambiente controllato e relativamente privo dei pericoli e delle difficoltà che saranno proposti nei livelli più avanzati – a sviluppare personali strategie di ricerca e d’esplorazione. Al contrario spesso nelle classi scolastiche viene premiata più che l’indipendenza la più o meno cieca obbedienza alle indicazioni dell’insegnante, la quale però non spinge chi apprende a formare un approccio attivo e critico alla conoscenza.

Addirittura alcune attività come barare o copiare, sommamente stigmatizzate dalla pratica scolastica, sono – secondo Gee – da rivalutare nell’ottica diversa che ci offrono i videogiochi. Stavolta il videogioco chiamato in causa è Half-Life. Gee narra della sua esperienza con esso ed in particolare della difficoltà ad eliminare il boss alieno finale per la necessità di combatterlo contemporaneamente saltando su piattaforme flottanti (difficoltà che probabilmente Gee condivide coi giocatori non più troppo giovani per l’aumentare con l’età del tempo di risposta dei riflessi). Per superare l’impasse Gee ha fatto ricorso ad una “cheat” (la capacità di non morire anche cadendo dalle piattaforme) che altri giocatori avevano messo in rete. Attraverso quella “cheat” e grazie alla cooperazione con altri giocatori, Gee ha potuto superare i propri limiti e concludere il gioco. Il risultato in questo caso non va ascritto al singolo ma alla collaborazione di più persone, ognuna esperta in un campo specifico (ad esempio Gee “in cambio” ha aiutato giocatori che – non avendo avuto mai a che fare col sistema operativo DOS – non riuscivano a gestire la “console” per le “cheat” basata appunto su un’immissione di comandi testuali in stile DOS). Paradossalmente anche nel campo dei “game studies” la pratica del “cheating” viene stigmatizzata (ad esempio nell’importante Cheating di Mia Consalvo; MIT Press, 2007) come attività fondamentalmente snaturante il medium videoludico. Al contrario Gee ci ricorda come sia tipico della divisione del lavoro nel capitalismo avanzato non assegnare un compito ad un’unica persona che lo esegua dall’inizio alla fine ma piuttosto suddividerlo in base alle competenze dove tra l’altro più ancora che la disponibilità personale della conoscenza è importante l’information literacy ovvero la capacità di recuperare le risorse informative on demand e just in time là dove sono immagazzinate o da chi è in grado di produrle. Di più: il testo di Gee è una vera e propria proposta di rivoluzione pedagogica. Egli infatti propone di considerare la mente – e quindi l’apprendimento – non una questione psicologica, ma piuttosto sociale. L’apprendimento efficace, quindi, ovvero attivo e critico avviene non a livello personale, ma sempre quando viene contestualizzato a livello di pratica sociale, di conoscenza che abbia senso all’interno di un gruppo che di volta in volta può essere professionale, etnico, geografico, di interessi, ecc. Un apprendimento e una conoscenza sociale perfettamente sviluppati e sfruttati dai videogiochi di massa online come EverQuest e World of WarCraft.

In conclusione quello che Gee contrappone è da un lato la scuola dello skill-and-drill, ovvero quello che potremmo tradurre come scuola delle prove Invalsi, dove viene valuta la capacità degli studenti soprattutto di memorizzare informazioni per lo più avulse da un contesto per loro significativo, e dall’altro lato il modello di apprendimento dei videogiochi, che richiede alle giocatrici ed ai giocatori, un apprendimento progressivo ed attivo, che in molti casi si trasforma in apprendimento critico per la passione che i videogiochi suscitano. Il libro di Gee non è quindi tanto da consigliare agli appassionati di videogiochi, ma piuttosto a chiunque abbia a che fare oggi con l’istruzione – insegnanti, dirigenti, su su fino al Ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, che proprio il suo curriculum in Fisica la porterà ad apprezzare tutte le esemplificazioni che Gee riporta sull’insegnamento di questa materia – perché vedano come i paradigmi dell’istruzione oggi utilizzati non solo possano avere alternative, ma anzi come queste alternative siano non mere ipotesi teoriche, ma quotidianamente sperimentate con successo dall’industria videoludica.