La foto del bambino siriano scaricato dalle onde come un rifiuto sul bagnasciuga ha toccato cuori e menti e segnato una svolta nelle coscienze di popoli e politici.

Ma i sentimenti sono mutevoli e subito hanno ritrovato voce razzismi ed egoismi. In balìa delle ondate di sentimenti, delle mutevoli tendenze di opinione, l’Europa cambia le decisioni da una riunione all’altra e guarda al fenomeno migratorio dal suo punto di vista, per i problemi che esso crea, e non per capire perché nasce, quali problemi lo generano.

Abbiamo visto famiglie con donne e bambini marciare in gruppo, avanzare sui binari in una vera e propria marcia dei diritti, protestare con rabbia ed orgoglio contro polizie e confini artificiali, cercare strade nuove e impervie per eludere i muri di filo spinato.

Come non paragonare queste immagini al famoso Quarto Stato di Pellizza da Volpedo? Quell’immagine non rappresenta solo uno sciopero, una protesta, ma la presa di coscienza dei propri diritti, l’essere collettività consapevole della forza che dà lo stare insieme.

Va ben oltre le immagini dei bambini sporchi di carbone ed emaciati della prima fase dell’industria pesante, non vuole suscitare pietas e carità, mostra un cammino a testa alta per affermare diritti e dignità. Forse non è un caso che sia nato come evoluzione di due altre opere – Ambasciatori della fame e Fiumana – con un crescendo di protagonismo e di forza della figura femminile.

Quell’evoluzione costituisce una perfetta metafora del fenomeno migratorio e dei suoi caratteri nuovi: rivendicazione collettiva dell’accoglienza come diritto, orgogliosa determinazione nel perseguire l’obiettivo. Che cosa ha prodotto questa nuova consapevolezza dei migranti che gli fa sentire come un diritto venire in Europa? Cercare di capirlo è importante per coglierne meglio portata e durata, per cercare le risposte adeguate.

La prima causa riguarda naturalmente le guerre, le destabilizzazioni dei paesi per ragioni militari e geopolitiche, le politiche economiche e ambientali. La fuga dalla Siria è emblematica. Il popolo siriano ha resistito e sopportato di tutto in questi anni. Adesso l’Isis controlla una parte del paese, con territori densamente popolati e intensamente bombardati. Si è persa ogni speranza, non si intravede più una via di uscita in tempi umanamente accettabili. Non resta, quindi, che fuggire in cerca di un futuro per sé e per i figli.

Ma se così è possiamo limitarci, anche se già sarebbe tanto, a cercare soluzioni dignitose di accoglienza? Non dobbiamo porci nello stesso tempo il problema della pacificazione e della transizione politica in quel paese? La proposta Putin che prevede un governo transitorio che proceda ad elezioni controllate è proprio fuori dal mondo? Ed in alternativa cosa propone l’Onu? E l’Europa, quantomeno adesso che sta diventando il terreno sul quale si scaricano tutte le conseguenze, vuole dotarsi di una sua politica verso quell’area, una politica magari un po’ indipendente, se serve, da quella statunitense? Insomma questo flusso di profughi non si fermerà se non si trova la forza di pacificare quel paese. L’esempio della Siria, con le differenze che conosciamo, si può estendere ad altri flussi migratori (Iraq, Afghanistan, Africa e nord Africa..). E, nel caso specifico dell’Africa, fughe da guerre, dittature, persecuzioni religiose si intrecciano fortemente con esodi da cambiamenti climatici, da impoverimento di aree agricole e del mare.

C’è poi un altro fattore che tutte le migrazioni storiche hanno conosciuto. Quando parenti ed amici si sono stabiliti in altri paesi trovandoci un futuro ed un lavoro si è registrato un naturale effetto di trascinamento. Come negare a chi è rimasto nel paese di origine il desiderio legittimo di raggiungerli? Abbiamo dimenticato i nostri concittadini del Sud emigrati nelle Americhe ed in Australia con le lunghe catene dei ricongiungimenti? Questo fenomeno è ineluttabile ed in Italia si è fermato solo quando le nostre condizioni di vita si sono avvicinate a quelle dei paesi di emigrazione ed è cominciato un flusso di ritorno.

C’è, infine, anche un fenomeno nuovo determinato dalla rete: cellulari, tablet, internet conferiscono alle migrazioni del secondo millennio un carattere assolutamente inedito. Avendo portato nei paesi più poveri gli strumenti e le tecnologie più avanzati della comunicazione, abbiamo facilitato il confronto tra livelli di vita e di consumo. Questo confronto non solo rende intollerabili disuguaglianze prima accettate, ma crea nell’immaginario una appartenenza comune al pianeta, unifica il mondo e genera un nuovo diritto di cittadinanza universale che prescinde dai confini fisici territoriali. E non è possibile sentirsi tutti cittadini del mondo virtuale e poi accettare di esserne esclusi in quello materiale.

C’è stata una fase, all’inizio della rivoluzione informatica, in cui filosofi e sociologi, scuola francese in testa, hanno teorizzato che con la rivoluzione digitale i paesi più primitivi avrebbero saltato il percorso storico tradizionale di tutte le civiltà – dall’agricoltura all’industria al terziario – e sarebbero approdati direttamente nell’economia immateriale ed informale del terziario avanzato. Questo non è accaduto perché quelle teorie hanno trascurato gli interessi economici e la loro potenza. Così si sono portati in quei paesi i nuovi strumenti in una sorta di colonizzazione digitale solo per vendere i prodotti e per diffondere la nostra cultura. Ed in qualche caso siamo andati nei loro mari con navi-fabbriche che pescano, trasformano, inscatolano e lasciano nelle acque, prima fonte di vita per i pescatori locali, lische e residui di lavorazione. L’economia immateriale si è materializzata nella fame.

Di tutto questo dobbiamo prendere consapevolezza per governare il fenomeno. Guido Viale ha avanzato proposte interessanti ed organiche per gestire questi flussi. Sarebbe utile che i politici (nazionali ed europei) le facessero proprie. Soprattutto a sinistra, per rilanciare l’idea di un’altra Europa anche nello scacchiere politico medio orientale e mediterraneo. Noi Europa non possiamo accettare che l’area del mondo sulla quale si scaricano i conflitti tra potenze (sulle risorse e di natura religiosa), sia proprio quella a noi più vicina eppure priva di una funzione autonoma nelle relazioni internazionali, orfana di un protagonismo pacifista.

Se c’è vita a sinistra, che qualcuno batta un colpo.