Ieri non c’è stata città turca che non sia stata teatro delle manifestazioni delle donne, nella giornata mondiale contro la violenza di genere. Qui le donne, dopotutto, sono in piazza da anni, a frapporre i loro corpi a un governo che ha fatto del patriarcato strutturale un suo marchio di fabbrica.

Lo scorso marzo ha pensato bene di uscire dalla Convenzione di Istanbul, la prima a introdurre strumenti legalmente vincolanti per combattere la violenza sulle donne. Violenze che in Turchia non sono affatto venute meno, nonostante la propaganda governativa abbia descritto la Convenzione come una minaccia alla famiglia tradizionale e un inno all’omosessualità.

Ieri i numeri li hanno dati la ministra della Famiglia, Derya Yanık, e quello dell’Interno, Süleyman Soylu: «Al 15 novembre, sono stati commessi 251 femminicidi quest’anno». E non è ancora finito. Altri numeri li dà Bianet, agenzia stampa indipendente: 285. Per la piattaforma «We will stop feminicide» ne sono stati commessi già 345.

Nel 2020 erano stati 300 (più 170 casi sospetti, etichettati dalla polizia come suicidi), 477 nel 2019, 440 nel 2018. Bilancio doppio rispetto a dieci anni fa. Una realtà a cui si aggiungono violenze domestiche, matrimoni precoci, stupri. Anche in custodia: ieri un rapporto del Legal Aid Bureau against Sexual Harassment and Rape in Custody ha dato conto di almeno 793 casi di violenza sessuale contro detenute dal 1997 a oggi. Di queste 571 erano curde.

Contro una realtà cristallizzata dalla politica, ieri le donne hanno manifestato in tutto il paese, da piazza Taksim a Istanbul a piazza Sakarya ad Ankara. E ancora, a Smirne, Antalya, Bursa, Mersin, Edirne. «La nostra rivolta contro la violenza dello Stato maschile non è finita, ma cresce», «Jin, jiyan, azadi» (donne, vita e libertà, in curdo), «Gli omosessuali esistono», alcuni degli slogan urlati.

Ad attendere i cortei un ampio dispiegamento di polizia, che in passato non ha avuto problemi a manganellare le manifestanti. A Istanbul gli agenti hanno lanciato gas lacrimogeni e proiettili di gomma, ma migliaia di donne hanno continuato ad avanzare oltre le barricate. In piazza è stata ricordata anche la 28enne Basak Cengiz, architetta uccisa una settimana fa da un uomo con una spada da samurai. Ed è stata ricordata Deniz Poyraz, membra dell’Hdp uccisa a giugno nella sede di Smirne da un paramilitare.

«Subito dopo l’uscita (dalla Convenzione di Istanbul, ndr) un aggressore in prigione ha chiesto al suo avvocato se sarebbe stato rilasciato», racconta Berrin Sonmez della Women’s Platform for Equality: è il messaggio che è passato, senza Convenzione regna l’impunità.

Non è pura teoria: nelle stazioni di polizia non c’è più un dipartimento dedicato alle violenze di genere come prima e per gli ordini restrittivi contro uomini violenti ora ci vogliono due giorni di attesa, non più 24 ore. La donna che denuncia, poi, deve portare un certificato medico che attesti la violenza per poter avviare la pratica.