Sono stati condannati a 24 anni di carcere Mamur e Zar Jan, i due afgani che la prima Corte d’Assise di Roma ha messo sotto accusa per l’omicidio della giornalista del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli. La cronista del quotidiano milanese fu uccisa il 19 novembre 2001 in Afghanistan assieme all’inviato di El Mundo Julio Fuentes e a due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari. I due imputati, in carcere nel loro Paese, erano già stati condannati in Afghanistan a 16 e 18 anni di carcere. Il pm Nadia Plastina aveva chiesto per gli imputati la pena di 30 anni di carcere. In Italia erano sotto processo sia per concorso in omicidio sia per concorso in rapina (per essersi impossessati, insieme con altri ancora non identificati, di una radio, un computer e una macchina fotografica appartenuti a Cutuli). I loro avvocati ricorreranno in appello.

Se non si chiude il capitolo del dolore per la perdita di una giovane collega che il lavoro aveva spinto in prima linea (verso la Kabul da cui erano scappati i talebani), non si è purtroppo nemmeno chiuso il capitolo di una guerra iniziata proprio allora per “liberare” il Paese e che si protrae ormai da 16 anni. Una guerra infinita che sta vivendo una nuova escalation purtroppo solo sotto gli occhi degli afgani. E’ stato Trump a dare il via libera a quella che sembra ormai – oggi assai più di ieri – completo appannaggio di generali e 007. Trump ha dato ascolto alle sirene più guerrafondaie del Pentagono e autorizzato la Cia ad estendere le sue operazioni segrete lasciando del tutto in secondo piano il lavoro dei suoi diplomatici, il cui unico mantra attuale è accusare il Pakistan di essere uno dei maggiori responsabili della guerra, blandendo l’India, ritenuta un contraltare chiave per osteggiare le mire di Islamabad. L’effetto appare per ora solo quello di imbaldanzire Delhi e deprimere Islamabad, i due fratelli-coltelli cui servirebbe un mediatore forte e non certo un colosso che prende le parti di uno solo dei contendenti.

Quanto alla guerra sul terreno, i dati parlano da soli: secondo fonti statunitensi citate dalla stampa afgana, al 31 ottobre di quest’anno l’aviazione americana avrebbe sganciato 3.554 bombe in Afghanistan contro le 1.337 dell’anno scorso e le “sole” 947 del 2015. L’Us Air Force ha dunque triplicato le operazioni dall’aria su obiettivi talebani o dello Stato islamico (compresa la madre di tutte le bombe, un ordigno da 11 tonnellate di esplosivo, sganciato l’aprile scorso). Al dato ufficiale va poi aggiunto il dato ufficioso: le operazioni coperte con droni dell’esercito e della Cia (che ora ha luce verde per bombardare anche in Afghanistan oltreché in Pakistan). L’effetto è per adesso quello di aver fatto salire almeno settimanalmente il numero delle vittime civili causate da bombardamenti chirurgici solo per definizione. L’ultimo (cinque morti tra cui tre bambini) è solo di qualche giorno fa. Ma c’è di più.

Il generale John Nicholson, diventato il vero (e praticamente l’unico) portavoce della guerra, non perde occasione per spiegare la nuova strategia americana che normalmente dovrebbe essere resa nota dal presidente o dal suo segretario di Stato. Nicholson, cui si deve sia la scelta di aumentare le truppe sul terreno, sia la nuova escalation di bombardamenti, ha spiegato anche che adesso nel mirino ci sono i laboratori che raffinano oppio e lo trasformano in eroina. Poiché i dati dicono che la produzione aumenta, Nicholson sembra aver deciso in completa autonomia che bisogna smetterla con la diversificazione della produzione – offrendo ai contadini incentivi per terminare di coltivare il redditizio papavero – ma che conviene bombardare. Una strategia che già si è dimostrata fallimentare sia in Afghanistan sia altrove (Colombia). L’ingegnoso generale ha anche informato l’opinione pubblica che non si perderà più tempo a incendiare i campi coltivati a papavero ma che le bombe punteranno direttamente sui laboratori.