Stati Uniti, Germania, Francia e Regno Unito hanno annunciato nei giorni scorsi che nel mese di settembre inizieranno a distribuire la terza dose a partire dalla popolazione più vulnerabile. Israele da parte sua ha già iniziato. L’appello dell’Oms a ritardare i richiami per permettere ai paesi più poveri di approvvigionarsi sta dunque cadendo nel vuoto. L’Italia non ha ancora preso una decisione: «La raccomandazione dell’Oms è importante» sostiene l’epidemiologo Gianni Rezza, direttore della prevenzione al ministero della Salute. «Le varianti sono la conseguenza della circolazione del virus in Brasile, Sudafrica, India, dove non c’erano vaccini a contrastarla». Ma ribadisce che l’appello «non deve influenzare le scelte sui richiami dei paesi che dispongono dei vaccini, ma spingerli ad aumentare le donazioni». Da noi, spiega Rezza, «c’è una discussione in atto e non ci sono certezze». In ogni caso, se ne parla per l’autunno inoltrato.

Il dibattito sulla necessità della terza dose si sta accendendo anche nella comunità scientifica. Chi sostiene la necessità dei richiami segnala il calo nella quantità di anticorpi presenti nel sangue delle persone vaccinate cinque o sei mesi prima. E cita gli studi in corso secondo cui una terza dose con un vaccino a mRna (Pfizer o Moderna) farebbe risalire gli anticorpi a livelli superiori a quelli dei neo-vaccinati. Sulla base dell’effetto benefico sugli anticorpi, Pfizer e Moderna si apprestano a chiedere l’autorizzazione per la terza dose negli Usa e in Europa.

Una parte crescente degli esperti invece è scettica. «Gli statunitensi vaccinati con due dosi non hanno attualmente bisogno di un richiamo» hanno dichiarato in un comunicato congiunto gli esperti statunitensi del Centro per il controllo delle malattie e della Food and Drug Administration. Ieri gli ha fatto eco l’europea Ema: «Al momento è troppo presto per confermare se e quando sarà necessaria una dose di richiamo per i vaccini Covid-19, perché le campagne di vaccinazione e gli studi in corso non hanno ancora fornito dati sufficienti per capire quanto durerà la protezione».

La comunità scientifica concorda sul fatto che un elevato numero di anticorpi implichi un alto grado di protezione dalla malattia. Ma non è affatto unanime nel ritenere che chi ha pochi anticorpi sia vulnerabile. Il sistema immunitario risponde al virus con diverse armi. Oltre agli anticorpi, contro l’infezione combattono i linfociti T, che uccidono le cellule infette e stimolano i linfociti B a produrre rapidamente nuovi anticorpi. L’attivazione di queste cellule T e B, anche una volta svaniti gli anticorpi, potrebbe essere sufficiente a riaccendere la risposta immunitaria.

Tra i più dubbiosi sull’importanza degli anticorpi c’è Michael Osterholm del Centro statunitense per la ricerca e le politiche sulle malattie infettive dell’università del Minnesota. «I primi trial clinici sui vaccini a mRna hanno mostrato che le persone sono protette dal Sars-Cov-2 a tre settimane dalla prima dose, anche se gli anticorpi in quella fase sono ancora poco numerosi» ha detto al sito Health Policy Watch. «Questo mostra che gli anticorpi di per sé non permettono di prevedere l’immunità dal Covid, almeno per ora». La diminuzione nel tempo degli anticorpi inoltre non è un fenomeno anomalo, e necessariamente parallelo alla perdita di protezione. «Nella storia delle malattie infettive – spiega Antoine Flahault, direttore dell’Istituto per la salute globale dell’università di Ginevra – ci sono molti esempi in cui questo parallelismo non si osserva».

Per misurare l’effettiva probabilità di ammalarsi con il passare del tempo e individuare i fattori determinanti della protezione servirebbero mesi di ricerca sul campo. Le aziende, che già un anno fa hanno iniziato i test su decine di migliaia di volontari, erano nella migliore posizione per farlo. Gli studi però sono stati interrotti per difficoltà organizzative, dopo aver mostrato un’elevata protezione per almeno sei mesi. «Per giustificare un richiamo, occorre un ampio studio clinico randomizzato che misuri la riduzione di casi di Covid» e non solo un aumento degli anticorpi, spiega Vinay Prasad dell’università della California di S. Francisco, critico severissimo delle ricerche basate su evidenze traballanti. «Se questi studi non si possono fare, o richiedono troppo tempo a causa della scarsità di infezioni serie negli Usa – conclude – cade la motivazione stessa per l’autorizzazione di emergenza di questi vaccini». Per ora gli studi sul campo, inclusi quelli realizzati in Italia e con l’eccezione di una ricerca israeliana, non mostrano cali di protezione a oltre sei mesi dalle prime vaccinazioni. Ma si tratta di studi non randomizzati, cioè senza un gruppo di controllo da confrontare con i vaccinati.

Non stupisce che molti preferiscano affidarsi agli anticorpi per valutare l’efficacia dei vaccini: misurare gli anticorpi richiede pochi minuti, monitorare migliaia di pazienti molto di più. Secondo i critici la scorciatoia indurrà a richiami superflui, con uno spreco di dosi che altri Paesi potrebbero utilizzare in modo proficuo come sottolinea l’Oms. Ne approfitterebbero le aziende farmaceutiche, che hanno già chiuso accordi per la vendita di nuove dosi a Usa e Ue. La virologa Angela Rasmussen, che lavora allo sviluppo di vaccini all’università canadese del Saskatchewan e molto ascoltata sui media, chiarisce la posta in gioco in un tweet: «Le affermazioni delle case farmaceutiche basate sul livello degli anticorpi, secondo cui saranno necessari richiami ogni sei mesi, rappresentano un pio desiderio e un’allettante favola da raccontare agli investitori».