Da novembre a oggi, un’ondata di proteste senza precedenti si è abbattuta sull’Azerbaigian, paese ricco di petrolio e primo fornitore dell’Italia.

Il paese caucasico, stretto fra l’Iran e la Russia, si trova a vivere una stagione esplosiva dovuta all’abbassamento del prezzo del greggio.

La corruzione dilagante e la repressione politica – in un paese agli ultimi posti al mondo anche per la libertà di stampa – hanno fatto il resto.

E così la piccola repubblica post-sovietica, retta col pugno di ferro dalla famiglia Aliyev per oltre quattro decenni, è stata scossa all’improvviso dal malcontento.
La società civile, impoverita e stanca delle continue sopraffazioni, si è riversata per le strade. Si sono contati morti e oltre un centinaio di arresti. Tutto ha avuto inizio fra il 25 e il 26 novembre a Nardaran, a pochi chilometri dalla capitale Baku. Un sobborgo religioso, dove l’islam sciita – maggioritario come nel vicino Iran – è alla base della vita di molte persone.

Ma soprattutto un luogo povero, rimasto ai margini del boom economico del 2003-2012, quando il Pil azero – prima della crisi attuale – cresceva con una media del 13,5% l’anno. La rabbia della gente è esplosa, e le forze speciali hanno aperto il fuoco sulla folla.

Alla fine della protesta, si sono contati sette morti: cinque manifestanti e due poliziotti. Una settantina gli arresti effettuati in quei giorni e nei successivi. Il regime, consapevole dell’entità della crisi, ha voluto dare subito una dimostrazione di forza, sperando di chiudere presto la partita.

Ma non è andata così. A gennaio, a meno di un anno dall’ultimo crollo, la moneta locale – il manat – è tornata a precipitare a picco. Secondo Bloomberg, la valuta azera avrebbe perso il 52% del suo valore nei confronti del dollaro solo nelle prime tre settimane del 2016.

Drammatici gli effetti: inflazione fuori controllo, anche per i generi di prima necessità, perdita dei posti di lavoro e la chiusura di tutti gli uffici di cambio.
Di qui ha avuto origine un’altra serie di proteste che sono proseguite fino agli inizi di febbraio.

Non più solo a Nardaran: il malcontento della popolazione si è diffuso a macchia d’olio investendo dodici distretti amministrativi dell’Azerbaigian, a testimonianza di un divario sempre più netto fra la capitale Baku, sede del benessere e del lusso di pochi, e il resto del paese, sempre più impoverito.
In un contesto dove ogni forma di dissenso è considerata un crimine, si sono moltiplicati gli arresti: 55 nel solo distretto di Siyazan, dove è stato dispiegato l’esercito dopo le manifestazioni del 12 e 13 gennaio. Disorientato dall’entità delle proteste, il regime di Ilham Alyev – padre e padrone del paese, che ha ereditato il potere dal padre, morto nel 2003 – ha reagito con la forza, ma anche cercando il compromesso.

Hanno stupito molti, a tal proposito, la ventina di decreti firmati dal presidente in pochi giorni: fra le misure previste, diversi aumenti di salario che peseranno ulteriormente sulla spesa pubblica, oltre a un aumento delle pensioni del 10%.

A poco vale allora la lettura in chiave religiosa, portata avanti dal regime, per spiegare l’origine della protesta. Il punto è un altro: sociale ed economico.
Il lento avanzare dell’islam politico nel paese, ancora in larga parte laico, va di pari passi con la brusca interruzione di una parabola di crescita che era parsa per anni inarrestabile.

Inevitabile che, in un momento come questo, tutti i nodi vengano al pettine. In primo luogo, la mancata diversificazione, in un paese in cui l’economia dipende ancora in larghissima parte da petrolio e gas. E poi la corruzione dilagante e i progetti faraonici del regime – dal festival Eurovision del 2012 ai Giochi Olimpici Europei del 2015, fino al nuovo circuito di Formula 1 – che hanno impedito, in tempi di vacche grasse, una più equa redistribuzione del proventi del greggio.

Tagli importanti sono stati annunciati anche sul versante militare, dopo anni di corsa agli armamenti e spese folli, determinate dal perdurare del conflitto con l’Armenia per la regione del Nagorno-Karabakh. Il tutto mentre fosche nubi continuano a affacciarsi all’orizzonte: secondo le stime di Standard and Poor’s, il Pil azero perderà un punto nel 2016 e l’inflazione si attesterà al 15%, mentre il reddito pro capite sarà quasi dimezzato.

Una situazione del tutto inedita, quella che deve affrontare il presidente azero, paragonabile alla crisi che investe altri paesi come l’Arabia Saudita.
Un terreno nuovo e insidioso per un regime che, dopo la fine dell’Urss, aveva spacciato ai suoi cittadini il sogno di una crescita illimitata e di un benessere diffuso.

E, mentre per il momento le proteste sembrano rientrare, c’è già chi parla della fine dell’era petrolifera, in Azerbaigian.