Sull’immigrazione serve una discussione razionale, basata sugli studi, sui numeri e sui diritti delle persone. Lo abbiamo fatto a Vienna nel corso della conferenza annuale dell’European Migration Network, a cui ho partecipato insieme a rappresentanti delle istituzioni europee, accademici ed esperti delle Ong e dei think tank.

È sempre giusto e interessante confrontarsi con rappresentanti di altri Paesi e soprattutto ascoltare le esperienze di chi è coinvolto direttamente nel settore. È un metodo che aiuta a prendere decisioni migliori e per questo spero che sarà seguito dai colleghi senatori dopo le audizioni sul decreto immigrazione.
Ogni considerazione su cui abbiamo discusso a Vienna partiva da una consapevolezza di fondo: l’approccio al fenomeno deve essere strutturale e non emergenziale, multidisciplinare e non solo securitario. L’immigrazione richiede risposte, spesso contingenti, che però hanno bisogno di uno sguardo lungimirante e di misure a medio e lungo termine.

È tempo innanzitutto di un’azione davvero coordinata a livello europeo tra Stati che, aderendo a un progetto comune, siano capaci di condividere responsabilità che non devono essere lasciate sulle spalle di un Paese solo. E l’impegno dell’Unione europea, su questo bisogna intendersi, non può essere rivolto solo all’esterno delle proprie frontiere, la strategia deve comprendere anche un profondo ripensamento delle politiche di accoglienza.

Il fallimento dell’Europa in questo ha reso le politiche nazionali sempre più deboli, impaurite e disarmate davanti all’impopolarità e ha facilitato chiusure dettate in misura eguale dalla ricerca del consenso e dalla difficoltà di spiegare senza slogan la complessità del fenomeno migratorio.

A Vienna abbiamo considerato come prioritaria la lotta ai trafficanti di essere umani e abbiamo individuato nell’esperienza dei corridoi umanitari un modello replicabile non per poche decine di persone. Per ridurre disumanità e irregolarità occorre garantire vie legali d’accesso sicure.

Per raggiungere l’obiettivo di riduzione delle partenze e dei viaggi disperati, invece, bisogna avviare un serio investimento sui Paesi d’origine e su quelli ad essi limitrofi, sapendo che si tratta di un lavoro lungo e complesso. Non bastano solo i soldi però, servono progetti di qualità orientati all’autosufficienza dei popoli a cui si rivolgono, perché la beneficenza senza nessun indirizzo verso l’indipendenza non crea inclusione e opportunità, ma solo inefficiente assistenzialismo.

Cito l’esempio concreto fattoci dal professor Collier dell’Università di Oxford: un medico sudanese ha deciso di emigrare e si è trasferito a Londra, dove si è inserito perfettamente e lavora lì da anni. Lui stesso fa notare che nella sola Londra lavora un numero di medici superiore a quelli che operano in tutto il Sudan.

In sostanza dovremmo evitare che siano le persone a muoversi verso il lavoro ma viceversa portare il lavoro laddove è necessario. L’Europa, dirimpettaia dell’Africa, non può ignorarla, deve capire, anche nel suo interesse, che ogni persona ha il diritto di avere condizioni almeno dignitose nel posto in cui nasce e vive.

La diminuzione drastica degli sbarchi dovrebbe agevolare un dibattito come quello a cui ho assistito a Vienna, tutto concentrato sui contenuti, senza divisioni tra buonisti e realisti. Etica e pragmatismo servono entrambi alla causa. Ereditiamo dal passato e dall’Europa una montagna di errori. L’alternativa è tra continuare a perseguirli ciecamente, dirigendosi consapevolmente verso un baratro fatto di odio, intolleranza e conflitti sociali, e cambiare decisamente prospettiva per risalire lentamente la china e sperare di recuperare il terreno perso.

*Presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati ,Movimento 5 Stelle