Si è ormai spenta l’eco di una vicenda che ha agitato il mondo della giustizia italiana: lo scontro che esplose nel 2014 fra l’allora procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, e l’aggiunto Alfredo Robledo. Terreno della contesa, la conduzione dell’ufficio giudiziario forse più importante d’Italia: per Robledo, che si era rivolto al Csm, Bruti Liberati tentava di influenzare lo svolgimento di delicate indagini andando oltre le sue prerogative di direzione della procura. Il senso dell’accusa di Robledo: il procuratore voleva garantire che l’Expo 2015 si svolgesse senza eccessive «interferenze» che avrebbero potuto metterne a repentaglio la realizzazione, con il connesso smacco internazionale per l’Italia e il suo governo.

A TORNARE su questo episodio, sulle sue premesse e i suoi sviluppi, è ora il noto giornalista della Rai Riccardo Iacona con il suo Palazzo d’ingiustizia. Il caso Robledo e l’indipendenza della magistratura (Marsilio, pp. 204, euro 18), scritto per un pubblico più vasto di quello degli addetti ai lavori. La ricostruzione dei fatti è utile e interessante, non solo e non tanto per la controversia in sè, quanto perchè consente all’autore di tematizzare uno dei problemi dell’attuale ordinamento giudiziario: la gerarchizzazione delle procure. Dopo le modifiche introdotte dal leghista Castelli, solo parzialmente ritoccate in seguito, i pubblici ministeri sono infatti più «irrigimentati» di prima, con rischi evidenti (a chi vuol vedere) per l’autonomia e l’indipendenza dei singoli magistrati delle procure. E, di conseguenza, per i diritti e le garanzie dei cittadini.

Un’inchiesta meritoria, quella di Iacona, se non fosse che il significato del libro appare essere altro dalla puntuale ricostruzione di uno scontro – clamoroso – in uno dei gangli più delicati della giustizia italiana. Esaurita la parte a ciò dedicata, infatti, il volume punta il dito contro il «sistema delle correnti» interne alla magistratura, concludendone sostanzialmente che lì si radica l’origine di ogni male. Sarebbe la politicizzazione delle toghe a minarne autonomia e indipendenza, e quindi la credibilità e, nei casi estremi, persino l’onestà. Gli unici pm e giudici integerrimi sarebbero gli eroi solitari e «apolitici» che, proprio in virtù della loro (presunta) «apoliticità», non guardano in faccia a nessuno, come Robledo o Nicola Gratteri (che Renzi voleva fare ministro). La soluzione starebbe nello scegliere i consiglieri del Csm tirando a sorte.

È UNA VISIONE che non convince. L’autore sceglie di ignorare la vivace dialettica interna alle correnti, fatta anche di scontri e autocritiche, preferendo invece trasmetterne pigramente una immagine tutta negativa, in particolare di Magistratura democratica, a cui appartiene (ma ora è in pensione) Bruti Liberati. E decide di non vedere che, per fortuna, oltre al manipolo di eroi da lui celebrato vi sono molti «magistrati a sinistra» che fanno indagini e sentenze a tutela dei più deboli, esercitando anche il legittimo diritto di critica politica nei confronti di Renzi ieri e di Salvini oggi. Quello di Iacona è un «elogio della disintermediazione» figlio della cultura ostile ai corpi intermedi – come sono anche le associazioni di magistrati – che ha trovato sbocco nel M5s. Non può stupire, quindi, che il libro affidi il compito di spiegare come dovrebbe funzionare il sistema-giustizia all’idolo dei pentastellati Piercamillo Davigo, magistrato rispettabilissimo, campione del populismo televisivo-giudiziario. E capo di una corrente, di destra, in corsa per il prossimo Csm.