«I movimenti in Ecuador hanno fatto cadere tre presidenti, Correa potrebbe essere il quarto». Non usa mezzi termini, Pablos Davalos, ex viceministro dell’economia in Ecuador. Se fosse ora nel suo paese, starebbe in piazza, con i manifestanti che, dal 15 giugno, sfilano gridando «Fuori Correa». Invece ha un incarico di ricerca universitaria a Grenoble e si propone di raggiungere le proteste appena terminata la missione. Lo abbiamo incontrato a Firenze, ospite di un dibattito sull’America latina organizzato dall’Arci. In italiano, i suoi libri sono pubblicati da una piccola casa editrice dalle risonanze zapatiste “Caminar domandando”, e compaiono a fianco dei testi di Esteva e di Zibechi. Un filone di pensiero che antepone «la resistenza dal basso al potere» e che, nelle affermazioni di Davalos, considera obiettivo prioritario e irrinunciabile «la lotta contro l’estrattivismo».

Gli abbiamo chiesto di motivare la sua pervicace opposizione al governo di Rafael Correa, sotto attacco dopo la proposta di legge per aumentare le tasse sull’eredità e sul plusvalore. Progetti che, per il governo, riguarderebbero solo quel 2% della popolazione che possiede «oltre il 90% delle risorse» e non colpirebbero né le classi medie, né la piccola proprietà famigliare. A guidare le proteste sono soprattutto i sindaci di opposizione, nella capitale Quito e a Guayaquil, e i cartelli che chiedono la cacciata di Correa non lasciano dubbi sugli interessi che le muovono. Dicono, «Impoverire i ricchi non fa ricchi i poveri», «Libertà di impresa» e «Non vogliamo essere come il Venezuela». E i militanti di Alianza Pais hanno denunciato la presenza delle destre venezuelane nelle manifestazioni, venute ad arringare la cittadinanza con improvvisi comizi nella metropolitana.

In piazza, però, sfilano anche alcune organizzazioni indigene e sindacali, e la tensione sale in vista dell’imminente visita del papa Bergoglio. Nonostante abbia un’ampia maggioranza parlamentare, Correa ha ritirato momentaneamente il progetto chiamando il paese a discutere. Una decisione approvata, secondo recenti inchieste, dal 70% della popolazione, che comunque rifiuta le proteste al 60,2%. Ma, per Davlos, Correa cerca solo di mantere il potere, e il suo discorso va «decostruito».

Davalos tiene ai suoi trascorsi di attivista nei movimenti indigeni. Ricorda che, nel 2005, come viceministro ha dovuto «affrontare uno scenario simile a quello della Grecia in cui il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale avevano impoverito la popolazione, portato il paese in recessione e si dovette cacciarli e sospendere il pagamento del debito per riprendere in mano la nostra sovranità». Riprende anche i contenuti racchiusi nella costituzione ecuadoriana, nata in seguito a un ampio processo di consultazione popolare, «dall’idea di stato plurinazionale, ai diritti della natura».

Tuttavia, sostiene che il governo Correa, «pur non essendo neoliberista come i precedenti, sta consegnando gran parte dei territori indigeni all’estrattivismo, soprattutto cinese, reprime l’opposizione e imbavaglia il dissenso creando organizzazioni sociali amiche». Un progetto alternativo? «Aumentare i salari degli operai, eliminare le leggi che limitano il diritto di sciopero, applicare una vera riforma agraria e una tributaria che facciano pagare le tasse ai ricchi. Invece, col pretesto che occorre aumentare la produttività, Correa ha lasciato campo libero all’agrobusiness e ha fatto arricchire i più ricchi, un’oligarchia che si concentra in piccoli gruppi imprenditoriali a struttura famigliare e controlla in modo monopolistico l’economia».

Ma come si può pensare che un progetto simile possa coincidere con gli interessi della destra? Davalos risponde che «la confluenza di due proteste andrebbe comunque a vantaggio dei movimenti popolari, i quali non consentirebbero il ritorno a qualcosa di peggio». In Ecuador «non valgono gli stessi criteri utilizzati in Europa. Le comunità indigene non vogliono uno sviluppo per possedere più merci a scapito del buen vivir. E anche la nozione di classe media va inquadrata diversamente. Quella di oggi è composta da giovani ecologisti che hanno studiato e che vanno in bicicletta». Sono loro «e non gli operai o le popolazioni indigene ad aver appoggiato di più il progetto per preservare il parco Yasuni dall’estrattivismo». Correa «non è un socialista, ma solo uno che sta facendo il lavoro al posto del capitalismo. Perché certi progetti passano meglio con un governo che appare di sinistra piuttosto che con uno di destra».