Uno sguardo alle hit degli ultimi venti anni per rendersi conto di quante volte il suo nome appaia nei credit. Detiene anche un record, il 9 novembre del 2007, i primi tre posti della hit parade sono occupati da sue tre produzioni: Ligabue e Niente paura, L’immenso dei Negramaro e Ferro e cartone di Francesco Renga. Ma Corrado Rustici, 59 anni da Napoli e che da tempo ormai ha fatto di San Francisco la sua residenza stabile, ha un curriculum che va oltre il pop, è storia del rock. Da poco più di un mese ha pubblicato per la SonyMusic/Sony Classical un album solista dal titolo Aham, parola in sanscrito che significa Io sono…, registrato in perfetta solitudine, suonando tutti gli strumenti. Un concentrato non comune di ricerca, riflessione, sperimentazione e intelligenza creativa…

Da dove nasce l’esigenza di creare un album fuori da ogni catalogazione o ammiccamento commerciale?

Dal desiderio di fare qualcosa di diverso. Nella vita uno sceglie se essere artista o star, e anche se ho goduto di successi – diciamo così – di «seconda mano», non ho mai avuto l’ambizione di primeggiare. E poi trovo che il ruolo della chitarra e dei chitarristi si sia negli ultimi anni via via quasi fossilizzato. Non c’è più voglia di sperimentare e ci adagiamo su cose già ascoltate. Io parto dal presupposto che il know how utilizzato finora è passato: dobbiamo voltare pagina.

Non ci sono sintetizzatori, e anche in questo è un progetto in assoluta controtendenza…

È stata una scommessa – ci ho lavorato sei anni, un tentativo di fare musica che senta realmente mia. Non è stato semplice perché tutto doveva partire dalla chitarra che ha dettato arrangiamenti affinché tutti gli strumenti sembrassero reali. Perché ogni parte è suonata: dal violino al violoncello ho fatto tutto, la cosa più difficile è stato forse riprodurre il suono della batteria…

Un lavoro strumentale ad eccezione di due brani: «The guilty thread» dove appare la sua voce e «Alcove of Stars», affidata alla voce di Andrew Strong, cantante e attore nel film «The Commitments»…

Alcove of stars avevo provato a cantarla ma non mi piaceva il modo in cui la interpretavo. Volevo una tonalità più scura e Andrew è stato perfetto…

Gli inizi a Napoli per poi «fuggire» dall’Italia giovanissimo con la band di rock-fusion, i Nova.

Ho lasciato l’Italia nel 1975 e sono andato con il gruppo a vivere a Londra per tre anni. Era come entrare in un altro mondo, volevamo diventare un gruppo internazionale perché all’epoca era difficile fare concerti. Però era decisamente un periodo di grandi fermenti.

Erano gli anni del progressive…

A mio parere il momento più importante del rock italiano, forse l’unico in cui l’Italia ha realmente contato e ha portato novità e creatività. Per farti un esempio con i Cervello (la prima band di Corrado appena sedicenne prodotto dal fratello Danilo, ndr) avevamo inciso un album che è tuttora fra i più ricercati del genere. Ma ovviamente c’erano tantissimi gruppi, la Pfm, il Banco. Si rispettavano i canoni anglosassoni ma il linguaggio era italiano: era un mondo più aperto che favoriva la mescolanza di generi… Quando decisi con la band di andare a Londra non fu facile, facemmo letteralmente la fame all’inizio, poi incontrammo Clive Davis che ci mise sotto contratto con la Arista con cui pubblicammo quattro album.

In uno di quei lavori suonarono anche Phil Collins e Narada Michael Walden, e da quest’ultimo arriva l’invito per andare negli Stati uniti…

Narada mi ha aiutato a crescere e mi ha insegnato il mestiere. Abbiamo formato un supergruppo con lui Randy Jackson, Dave Sanchez, Walter Anassaief, tutta gente che avrebbe prodotto superstar e con i quali ho suonato nei dischi di Aretha Franklin (Who’s Zoomin Who, il disco del rilancio nel 1985, ndr), Whitney Houston, George Benson.

Poi la chiamata di Zucchero, un lungo sodalizio, durato 17 anni e 8 album

È stato un incontro importante, io portai quanto avevo acquisito in America e lui la melodia, con nuove sonorità. In qualche modo abbiamo cambiato un po’ la storia del pop italiano.

Su Zucchero pesano critiche per le troppe ispirazioni a generi e a brani famosi…

È un’accusa errata. C’è un suo stile, ci sono preferenze che lui ha inevitabilmente assimilato. Perché non è così automatico che circondarsi di persone brave significhi fare buone canzoni. E Zucchero sa scrivere ottimi pezzi.

La crisi delle major e il crollo del mercato fisico, ha determinato anche cambiamenti in fase produttiva. Per risparmiare tanta elettronica, tempi più veloci ma minore qualità…

Il digitale è usato in maniera passiva, è come se avessimo un artefatto usato per il minimo della sua potenzialità. Il risultato è che si presentano al pubblico canzoni statiche, senza mordente. Il salto che artisti e industria dovrebbero fare è dal punto di vista creativo, perché l’arte deve spingerci in territori che non conosciamo. E l’artista deve essere quello più avanti e che lo comunica alle persone.

L’avvento dei social ha mutato le modalità di distribuzione. Oggi le star escono dai talent o dal web…

Torniamo al discorso di prima, c’è l’arte e poi l’industria che fa prodotto. Ogni era ha le sue tecnologie, il web, i social esistono e quindi dobbiamo tenerne conto. Ma non credo che tramonteranno mai le case discografiche, perché hanno il ruolo – come dice Brian Eno, di «curaters», i curatori: bibliotecari che ti indicano una luce e ti consigliano. Perché oggi ci si illude che milioni di visualizzazioni significhino avere pubblico dappertutto…