Da alcuni giorni è in libreria, edito da Argolibri, il primo dei due volumi dedicati alle opere poetiche del poeta e scrittore Corrado Costa, dedicato alle Poesie infantili e giovanili (1937/1960), a cura di Chiara Portesine (pp. 320, euro 20).
Costa nasce il 9 agosto del 1929 a Mulino di Bazzano, sulla sponda del torrente Enza che divide la provincia parmense da quella reggiana. Già a otto anni inizia a misurarsi con la scrittura: sono i genitori a incoraggiarlo.
Corrado frequenterà poi il liceo classico Ludovico Ariosto di Reggio Emilia e, in seguito, la facoltà di Giurisprudenza; in entrambi i cicli di studi assimila strumenti linguistici e stilistici fondanti per la sua formazione poetica.

Come ripeteva Edoardo Sanguineti, i migliori poeti sperimentali e anarchici si sono educati sui classici, in una «dialettica di ordine e avventura». Così avviene per Costa. Fin da giovanissimo pratica esercizi di stile in cui si misura quotidianamente con le fonti classiche dei libri di studio della scuola, stabilendo un rapporto agonistico di emulazione e variazione. Allestisce un vero e proprio laboratorio di traduzione/rielaborazione per costringere la parola della tradizione a parlare al presente.
I classici della manualistica liceale, da Dante a Tasso, vengono forzati a interagire con situazioni desublimate, a volte anche in modo goliardico. «Nel mezzo del cammin cucù cucù». Il giovane Costa si misura con giambi e inni con una particolare attenzione per i moduli dell’epica cavalleresca – a partire da quelli di Ludovico Ariosto, nato a Reggio Emilia, – alla ricerca di spericolati effetti comico-avventurosi.

SE LA SUA PRIMA RACCOLTA compiuta è Lo scrigno (1937-1947), con preziosismi lessicali e stilemi tipici del pretese simbolista e tardo-ermetici del tempo, già nel ’45-’46 Costa arriva a quelle Poesie partigiane in cui innesta materiali lirici e temporali sul terreno della cronaca legata alla tematica bellica; nella lirica Rastrellamento di Luglio: «E il vento/ riporta del rastrellamento/ il suono lontano. Si sente/ sparare/ dai monti».
Costa tratta la tradizione come un supermercato da cui prelevare liberamente ingredienti stilistici. «Del canone non si butta niente», sembra dirci. E nella fase di apprendistato divora tutto, facendo indigestione di manuali scolastici e antologie, lasciando sedimentare sulla pagina citazioni e rimasticazioni poetiche. Questo attraversamento sistematico e compulsivo dei classici costituirà l’intelaiatura dei versi maturi, eccentrici e sperimentali che arriveranno in seguito.

NELL’INTRODUZIONE a questo primo volume, la poetessa Patrizia Vicinelli mette in risalto l’incontro tra Corrado ancora liceale e i testi di Eluard, Reverdy, Artaud, fino ad arrivare al Surrealismo, da cui Costa è folgorato. Tanto che i suoi testi degli anni Cinquanta, paradossalmente, appaiono doppiamente fuori tempo: sono neo-surrealisti quando il surrealismo è considerato un fatto già accaduto e, in Italia, si è in pieno realismo.
Attraverso i materiali inediti selezionati nel volume si vedono traslocare alcune macro-idee del giovane poeta da una zona di scrittura ancora realistico-descrittiva a una dimensione più filosofica: il tema del fiume, di Narciso, dell’animalità, della natura, della primavera.
Ma si vede crescere anche l’importanza sempre maggiore che assume il momento dell’oralità e della performatività dei testi costiani. Non è un caso se il volume si chiude con una selezione di testi e appunti per canzoni che Corrado scriverà a partire dagli anni Sessanta fino alla fine dei suoi giorni – testi nei quali pare rivivere, insieme all’amico editore di liscio ed editore di poesia sonora Ivano Burani, l’eco dei Cantacronache di Italo Calvino e compagni.

SONO CANZONI dedicate a Nostradamus, Van Gogh, o a temi più popolari e frivoli quali i tarocchi o i segni zodiacali. E qui occorre ricordare che lo stesso Corrado, la cui figlia primogenita Francesca fece parte della primissima formazione del complesso punk-rock filosovietico Cccp-fedeli alla linea, suggerì a Giovanni Lindo Ferretti di musicare alcuni versi dell’amico Antonio Delfini, tra cui il noto «diamo fuoco al piano padano».