In tempi non sospetti ma di fluttuante immaginazione, gli artisti hanno spesso optato per la molteplicità di senso che la maschera – come dispositivo di sperimentazione formale e identitaria – possiede. Un uso che si innesta nel processo di disidentificazione/identificazione del sé e che coglie, nella geometria del velamento/disvelamento, il concetto di transitorietà.

Come nel caso della ricerca di James Lee Byars (1936-1997) leggendario artista concettuale e performer, i cui temi della fragilità, invisibilità e morte, confluiscono nella ricerca del sublime e della perfezione. La sua indimenticabile allure, sottolineata da vestiti d’oro, guanti neri, l’inseparabile cappello nero e, spesso, il viso avvolto in una sciarpa di seta nera, segnalava l’inscindibilità tra arte e vita. Sia il suo occultamento facciale che il ricorso ai colori oro, rosso, bianco e nero, conferiscono una qualità poetica e mistica a sculture, installazioni, testi e performance e li caricano di un significato simbolico.

Lee Byars tentava di costruire un’opera perfetta in un mondo imperfetto. Come nella performance 100,000 Minutes or the Big Sample of Byars or 1/2 an Autobiography or the First Paper of Philosophy del 1969, in cui l’artista presenta in una galleria per l’occasione interamente dipinta di rosa, metà della sua autobiografia. Per accedere, gli spettatori, dovevano togliersi le scarpe e seguire Lee Byars da una apertura di un muro adiacente mentre, seduto e celato da una sorta di maschera-bavero, ne leggeva alcuni passi. O come Mask for Two Persons, (Masque pour deux personnes) del 1969, per cui aveva creato una mascherina di seta rossa per due persone, che innescava la permeabilità tra distanziamento e avvicinamento tra sé e l’altro.

Leigh Bowery (1961-1994 ), altro fiammeggiante performer e trasformista, gioca sui temi legati ai codici di appartenenza sessuale e al loro scavalcamento, basandosi sull’ecletticità e fusione dell’estetica kitsch, fetish, hard core, sadomaso e camp. Dietro le sue maschere, il suo make-up, le protesi, il piercing, le armature di piume e gommapiuma, seni finti e parrucche, Bowery reificava il desiderio di una identità borderline. «È come guardare cosa si nasconde sotto il tappeto», disse di lui l’amico Lucian Freud.

In questa fenomenologia non può mancare la sterminata ricerca sulla soggettività di Cindy Sherman, in cui la maschera assume la valenza di protezione, inganno, valorizzazione, travestimento magico, performance e intrattenimento. Per Sherman, infatti, le maschere sono anche intimamente legate alla dimensione dell’egotismo, nel loro obiettivo di esagerare, nascondere, trasformare e deliziare.

Come non si può prescindere dal perturbante universo sintetico fatto di silicone, resina, nylon, vivak, gel, da cui Matthew Barney invera una prolifica gamma di maschere che incarnano l’androginia postumana, fulcro della sua monumentale saga Cremaster (1996-2002). Tantomeno eludere sottigliezza della mostra: Gillian Wearing & Claude Cahun: behind the Mask another Mask alla National Portrait Gallery di Londra nel 2017, che assimila le due artiste nell’esplorazione del gender ricorrendo all’utilizzo polimorfo della maschera (lattice o make-up). Artista concettuale inglese la prima, in cui si avviluppa il contrasto tra identità personale e identità sociale. Artista e scrittrice francese la seconda, di matrice surrealista, militante della Resistenza francese durante l’occupazione tedesca, che fin dagli anni 30, coltivava i semi del gender fluid. Non solo arte, certo. Solo il pensiero di ripercorrere gli ammalianti mascheramenti simbiotici di Björk nel corso della sua carriera meriterebbe un affondo sullo sgranamento del sé e la sua reinscrizione continua. Di certo l’allusivo mondo della Fashion, non ha esitato a produrre mirabolanti masques Haute Couture, filigranando il lato feticistico del lusso.

È l’invisible man Martin Margiela, nel 2013, a presentare in passerella mask di cristalli e macro diamanti, che oltre a paventare la sparizione del soggetto, alludono al paradosso dell’ incomunicabilità e al limine dell’opulenza. Nella sua vertigine creativa, Margiela (per il video dei Primal Scream, 2013) avvinghia una Romance Mask al capolavoro di René Magritte Les Amants (1928), in una delle due famosissime versioni. Ma se gli enigmatici pepli bianchi magrittiani, che velano ma dividono i due amanti, suggeriscono le tracce della rimozione del trauma personale, Margiela suggella un iconico bacio queer.