Nelle ultime scene di Liberté la regia teatrale che Albert Serra aveva realizzato due anni fa alla Volskbuhne di Berlino, Helmut Berger usciva finalmente dalla carrozza del duca di Walchen, dove era rimasto chiuso per quasi l’intero spettacolo, appoggiato al suo bastone, corpo incerto e magnifico che in quella «esplorazione carnale dell’idea di Europa» come Serra definisce la sua ossessione per il libertinismo,si affiancava alle altre icone del regista,Casanova e Luigi XIV, segni di un tempo e di una storia cercata negli umori e nelle pieghe della fisicità a cui ha dedicato i precedenti film. Il cinema era già una componente seppure implicita nel lavoro su quel palcoscenico, dove la luce e l’oscurità prevalevano sulla «dizione», le frasi degli attori erano un sussurro rispetto ai gesti, e soprattutto allo spazio, quasi un «altrove» misterioso e resistente al proprio tempo.

E Liberté, il film presentato ieri al Certain Regard dal cineasta catalano, che proprio sulla Croisette ha avuto i primi riconoscimenti – rivelandosi con El cant des ocells (2008) alla Quinzaine , – da quello spettacolo ha origine anche se la «forma» cinematografica lussuriosa del regista permette a quanto rimaneva sul palcoscenico affidato appunto alla parola, al racconto, alla suggestione di esplodere «carnalmente» mettendo al centro con maggiore evidenza quel corpo che è terreno su cui si disegnano i cambiamenti e i passaggi dell’epoca, l’abisso che separa (o unisce?) il piacere e la sua messinscena, il godimento e il profitto, la gioia e il controllo. 1774, una radura tra Potsdam e Berlino, qualche anno prima della Rivoluzione francese. Alcuni nobili, Madame de Dumeval, il duca di Tesis, il duca di Wand libertini cacciati dalla corte puritana di Luigi XVI cercano il sostegno del leggendario duca di Walchen (Berger), seduttore e pensiero libero, che vive esiliato in quel bosco per sottrarsi all’ipocrisia benpensante dell’epoca.

VORREBBERO esportare in Germania il libertinaggio e ritrovare il piacere delle loro seduzioni, cercando di accendere quei lumi anche in Prussia. Nei cespugli, come in un crusing versione settecentesca di alta società vagano figure protette dal buio: intrighi, incroci, improvvisazioni, che mescolano attori professionisti e non tra cui ritroviamo Berger, coi suoi sussurri rochi di libertino morente, disegnano traiettorie dei corpi che si cercano, si incontrano, si mischiano, annullano il gender, la coppia, le classi e le origini.

BADESSE PROMETTONO di iniziare le novizie, fruste, catene, umiliazioni nel piacere. I peni esibiscono potenza o sconfitta, la ricerca del piacere percorre molte sfumature, fruste, catene, umiliazioni. Prendimi grida la nobildonna mentre due nobili si gettano sul valletto tenero e troppo protetto dalla sua padrona. Un altro nobile italiano e il suo socio discutono del sostegno economico da dare al progetto di «esportazione» del libertinismo, che però è qualcosa di complesso, un’utopia, un modo di stare al mondo ammonisce il vecchio libertino, e solo lì, in quell’ambiguità, in quella zona «altra» la libertà della ragione può unirsi nella luce soffusa della notte (because the night) a un desiderio universale. Quando il sole sorgerà, sarà il momento della ragione borghese, di un piacere rigidamente normato anche nella trasgressione.

NULLA PERÒ è lineare in Serra, che nelle sue immagini visivamente «d’epoca» – la luce che modula i chiaroscuri è di Artur Tort – libera continui punti di fuga. Il tempo, come quello in La morte di di Luigi XVI è quello dell’attesa, qualcosa che accade, che trasforma gli individui e la storia, si dilata, si impenna, ripete, scivola tra i gemiti, i sospiri, l’umorismo, la storia. Non è certo il film «in costume» che lo interessa piuttosto nelle ombre di quei misteri l’epoca si manifesta nella sua complessità, in un dialogo universale che si proietta fino al presente. E, al tempo stesso, è lì che costringe il proprio mezzo, il cinema a mettersi alla prova, nel confronto con una iconografia di cui sorprende la stilizzazione. «Amo la Francia del XVIII secolo nonostante le molte contraddizioni che la spingeranno alla Rivoluzione. La sua libertà e le sue direzioni sono sempre sorprendenti» dice il cineasta nel pressbook del film. Ed è proprio in questa «sorpresa» e questa «libertà» che Serra rende centrale traducendola nelle sue immagini e nella costruzione del proprio cinema. La sua è una dichiarazione di politica e di poetica che a ogni film interroga il sentimento e il senso del gesto di filmare. Sontuoso, libero, profondamente contemporaneo.