Il corpo confinato nei limiti della propria pelle è un’esperienza traumatica che regolamenta non solo le relazioni, ma anche lo spazio e soprattutto la mente. Questo oggi è ciò che ci accade.

L’interiorizzazione delle regole, dei gestes barrières come li definiscono i francesi, è un processo di autodisciplinamento particolarmente alienante. Il corpo in realtà è aperto, esposto e quindi a rischio, fragile. I confini che assegniamo al corpo proprio sono dunque confini normativi che devono regolamentare ogni contatto, da qui lo spostamento alla dimensione virtuale. Vedersi e non toccarsi, non poter leggere le molte articolazioni del linguaggio del corpo. Tutto questo però deve fare i conti con le condizioni materiali, sociali, politiche e mentali in cui questa pandemia ci ha gettato. Il corpo proprio, il corpo collettivo non è mai un qualcosa di astratto.

Il diffondersi di virus capaci di mutazioni sempre più aggressive era stato già ampiamente segnalato non solo dalla letteratura scientifica, ma anche dalle analisi di autori come Isabelle Stengers, Donna Haraway e molti altri. Non vi abbiamo prestato attenzione, in questo diktat pseudo-efficientista del capitale attuale, la fragilità è da eliminare perché è un atteggiamento da ritenersi pessimista e dunque un vero e proprio sabotaggio nei confronti del produttivismo a ogni costo.

Siamo passati così dai corpi confinati della fase 1 ai corpi auto-normati della fase 2.

I nostri corpi sono dunque frontiere labili, dobbiamo sorvegliarli al pari di ogni gesto, il gesto verso l’altro costituisce di per sé un rischio, un veicolo di infezione. Questa dimensione è del tutto nuova nella sua radicalità e nella sua diffusione, certo fin da bambini siamo stati allertati a sorvegliare i contatti, ma in quei casi il contatto costituiva una sorta di rito iniziatico, ci si ammalava, si stava in quarantena, si diventava immuni.

Ma questa volta, la sfera chiamata in campo da questa pandemia, è decisamente più ampia e stravolgente, cambia il modo di lavorare (per chi il lavoro è riuscito a conservarselo), di incontrarsi, di esplorare. Da un punto di vista mentale e psicologico, la svolta è talmente radicale da aver alla fine prodotto due risposte di massima: una profonda rimozione o un’aggressività diffusa.

La paura del corpo, dei corpi.  I corpi si declinano in relazione ambientali, quindi non basta sorvegliare i confini del nostro corpo, ma anche gli spazi in cui ci troviamo. Questa richiesta continua di attenzione si accompagna però a un’altrettanta continua richiesta di prestazione: prestazione di cura, telelavoro, precarizzazione, emarginazione e infine scarto quando il corpo non serve più perché inadeguato o malato.

Ecco perché un primo movimento che possiamo osservare consiste in un’enorme rimozione; il tempo sospeso della quarantena è alle spalle, con i suoi riti, le sue angosce. La rimozione non è di certo un’attitudine recente, in questi nostri tempi velocizzati dalle continue trasformazioni, la rimozione gioca il ruolo del tradimento della memoria così funzionale alle strategie di controllo. Proprio questo meccanismo ci aiuta a comprendere come le ferite, le umiliazioni debbano essere trattenute in una sorta di riserbo che assomiglia però di più a una censura. La rimozione del tragico chiama in causa il collettivo, il nostro corpo sociale, le relazioni, le istituzioni che siamo chiamati a reinventare. Se prevale il rimosso tutto questo non riusciremo a farlo, l’atomizzazione della vita lavorativa, affettiva, pubblica era un processo già in corso, funzionale al governo prescrittivo della sfera sociale. Disagio, paura, scontento, senso di abbandono non trovano ancora le parole e gli spazi in cui essere espressi.

Possiamo così meglio comprendere il diffondersi del secondo movimento, il risentimento, il diffondersi di quelle «passioni tristi» di cui parlava Spinoza, che sembrano dilagare in questa fase in cui tutto ciò che avevamo costruito è messo a rischio, è privato di futuro. Ci troviamo a vivere sulla frontiera come suggerisce Gloria Angelina Anzaldùa, che indica come le frontiere siano spazi da attraversare, spazi di conflitto che se abbandonati al racconto del risentimento non potranno che diventare ancora più coercitivi.

Per vivere attraverso queste frontiere abbiamo bisogno di saperi che da troppo tempo appaiono relegati nell’ambito delle retoriche della comunicazione.

I corpi, la materialità delle condizioni di vita dei nostri corpi, costituiscono quella trama dei «saperi situati» di cui ci parla Haraway. In questo momento riconnettere i saperi, gli ambiti di conoscenza può significare ripensare a ciò che ci è davvero necessario per vivere in modo più soddisfacente, a ciò che ha distrutto i nostri territori, devastato gli ambienti offrendoci in alternativa l’illusione di poter essere compartecipi di una sequela di eventi scintillanti quanto illusori. Ci sono stati venduti spettacoli ben più deprimenti di quanto non ci spiegasse lo stesso Guy Debord.

Se i nostri corpi sono aperti devono dunque riappropriarsi di questi saperi messi in disuso, e da più parti questa urgenza inizia a manifestarsi; in alcuni ambiti la riflessione sulla questione della cura, del reddito, dell’ecologia non è un vago esercizio di stile, ma cerca di articolare una nuova visione del politico e del sociale. Va richiamata pertanto la questione delle tecnologie, delle protesi, del virtuale, che in questa periodo hanno svolto e stanno svolgendo funzioni importanti e giocano un ruolo centrale nei processi di trasformazione in corso. La «digitalizzazione delle esistenze» non è una semplice dematerializzazione delle nostre vite, è piuttosto una torsione, del resto in atto da decenni, del nostro modo di usare il corpo, la mente, il tempo e lo spazio. Le protesi che costituiscono il nostro quotidiano, assegnano ai corpi nuove funzioni iscritte nelle bolle dello spazio domestico, delle connessioni e che richiedono capacità diverse in termini di attenzione, organizzazione di sé, del proprio lavoro, delle nostre relazioni. Sono situazioni di intensificazione di una nuova e al contempo antica forma di alienazione, siamo compiutamente messi al lavoro e questo non implica la cancellazione del lavoro tradizionale e fisico, quanto ne cambia le dislocazioni in direzione della logistica e della cura, non a caso settori particolarmente sfruttati. All’alienazione nell’ambito virtuale corrisponde un sempre più diffuso sfruttamento nei settori di “servizio” prima indicati. Per quanto i nostri corpi paiono ostaggio di paura, solitudine o malattia, non per questo sono scartati da quella mega-macchina capitalistica su cui si interrogava Andrè Gorz.

Tornare a parlare, a riflettere in modo critico su quanto ci accade richiede una messa in relazione di tutti questi frammenti, di tutte queste pieghe che possono aiutarci a comprendere come nessuna frontiera sia invalicabile. Nei racconti, nelle poesie, nelle riflessioni contenute in Borderlands, Anzaldùa ci aiuta a capire come questa condizione di confine, che sempre chiama in causa i corpi, abbia bisogno di nuove lingue, di lingue meticce per riuscire ad attraversare e riformulare situazioni altrimenti intollerabili. La pandemia è la mappatura terribile di questi confini corredata dai suoi termini inaccettabili: guerra, distanziamento sociale, identificazione dei trasgressori, etc. Non stiamo vivendo una guerra, ma una catastrofe annunciata e inascoltata perché «la macchina non si doveva fermare».

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Tiziana Villani, filosofa. insegna presso Il Collegio di Dottorato «Ambiente e territorio» DICEA, Università di Roma – La Sapienza Dip. INGEGNERIA. È associata all’Università Paris 8 UFR. Professore di «Fenomenologia dell’arte contemporanea» presso il Dipartimento «Visual arts and Curatorial studies», dell’Accademia NABA di Milano. È direttore delle Edizioni Eterotopia France www.eterotopiafrance.com e della collana/rivista «Millepiani» e «Millepiani/Urban» www.millepiani.org

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Nota bibliografica

  1. Stengers I., Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient. Paris, La Découverte, 2008.
  2. Haraway D., Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto
    Nero Editions, Roma 2019
  3. Anzaldùa G.A., Borderlans/La Frontera: The New Mestiza, 1987
  4. Gorz A., Ecologica, Milano, Jaka Book, 2009
  5. Debord G., La società dello spettacolo, Parigi, 1967