Più che testimonianza di una «lunga fedeltà» all’oggetto di ricerca, il nuovo Pasolini (Salerno, pp. 332, euro 22) di Antonio Tricomi è un ulteriore corpo a corpo con la multiforme opera dell’intellettuale corsaro, sulla quale lo studioso si è a lungo (e da sempre) interrogato.

OCCORRE RICORDARE la centralità per la critica pasoliniana di volumi come Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio (Carocci, 2005), Pasolini: gesto e maniera (Rubbettino, 2005), In corso d’opera. Scritti su Pasolini (Transeuropa, 2011), e dei tanti saggi e interventi sul poeta delle Ceneri, non tanto per certificare la costanza di un evidente impegno esegetico, quanto per verificare l’ipotesi messa in campo da Tricomi e sostenuta caparbiamente negli anni: che Pasolini, nell’inesausto sforzo di produrre un organismo testuale dinamico, teso continuamente a superarsi, e dunque quasi per costituzione costretto a bruciarsi e forse a riaccendersi in obbedienza a un principio di realistica verifica della sua validità militante, abbia rappresentato, in virtù di questa furia costruttiva e distruttiva, la modernità letteraria italiana nel momento della sua incipiente dissoluzione.
Non per dire che Pasolini sia fra gli scrittori l’ultima e vera figura civile, o, secondo la vulgata, un’irrinunciabile voce profetica; quanto per scorgere nella sua parabola di poeta, cineasta, saggista, polemista e commentatore, nella sua inesausta performance autoriale, come direbbe Tricomi, la sconfitta dell’umanesimo, il tramonto della modernità, l’evaporazione di un paradigma culturale moderno, ossia fondato sull’emancipazione per mezzo del sapere critico, e nello stesso tempo i modi – tuttavia improntati alla disillusione – per mantenere viva una pur residuale resistenza.
In tal senso, la sua opera, pur continuando a rappresentare un modello di esperienza intellettuale largamente consolidato (con tutti i rischi, da Tricomi palesati nelle ultime pagine del suo studio, di passiva celebrazione e di epigonismo caricaturale), sembra restituire il suo valore proprio in virtù della distanza che viene a inscenare tra i presupposti, tutti moderni, della sua manieristica «imperfezione» e un’epoca, la nostra, che quelle modalità espressive sente già inevitabilmente posticce, se non accettabili solo a patto di semplificarle e renderle così aderenti più a pose occasionali che a discorsi culturali scientemente costruiti.

E, ALLORA, LA FORMULA che Tricomi utilizza per congedarsi dal lettore – Pasolini autore giocoforza «senza eredi» – va letta come diagnosi di questa problematica e assidua presenza dell’autore «luterano» in un momento culturale, sociale e politico che, teoricamente, la sua estraneità dovrebbe rendere ancor più evidente, se non sforzarsi, e in modo politicamente fruttuoso, di sancire. Da questo punto di vista, le tesi di Tricomi ricordano quelle di Franco Fortini. Detto ciò, Pasolini ripercorre con grande attenzione l’itinerario culturale dello scrittore, ne interroga le traiettorie, ne restituisce le ragioni profonde.
Con un assillo: in filigrana, scorgere il Novecento letterario italiano, le sue contraddizioni che, d’altra parte, Tricomi ha già riconsegnato, nella loro complessità, in un libro precedentemente dato alle stampe, e di riconosciuta rilevanza, come La Repubblica delle Lettere (Quodlibet, 2011).