Da bambina, aveva più o meno cinque anni, Rita Bullwinkel si ritrovò con la testa squarciata da una mazza da golf. Pare che fosse stato un amichetto del fratello maggiore, furioso perché lei si era rifiutata di giocare a palla con lui. Bullwinkel ricorda ancora oggi il momento esatto in cui ha visto la mazza arrivarle sulla faccia e quello in cui si è risvegliata tutta sola sul prato. Toccandosi si è sentita appiccicosa e coperta di sangue. Senza chiamare nessuno è rientrata in casa per osservarsi nello specchio appeso sulla parete di fronte alla porta d’ingresso. Ricorda di essersi guardata la testa aperta e di avere pensato: ecco, è così. Il mio corpo è rotto, quello che di solito sta dentro adesso esce fuori, lo spazio in cui il mio corpo comincia e finisce non è più molto preciso. Bullwinkel ha raccontato poi di essere stata miracolosamente ricucita. Ha una cicatrice sul viso, ma le tracce di quel gesto così violento che ancora le restano addosso non sono ormai molto vistose. È probabile che il colpo le sia arrivato sul lato sinistro della faccia, se in tutte le fotografie, abbia i capelli sciolti o raccolti, la scrittrice porta la scriminatura a destra e un lungo ciuffo che le scende morbido sul sopracciglio opposto fino a coprirle parte della guancia.
Il titolo originale è «Belly up»
Più evidenti di qualsiasi cicatrice, assolutamente esposti, si direbbero i segni lasciati invece da quella mazza da golf sull’ispirazione dell’autrice, quasi marchiati a fuoco dentro la carne viva della sua voce. Risaltano inconfondibili, estremamente nitidi, in ognuno dei diciassette racconti da cui è composto Lingua nera (pp. 231, € 15,00), libro d’esordio uscito negli Stati Uniti lo scorso anno e ora tradotto in italiano da Leonardo Taiuti per la sua Black Coffee, giovane, raffinata casa editrice fiorentina che pubblica soltanto testi di narrativa e saggistica nordamericana, oltre alla molto indie rivista «freeman’s». Di cosa parla se non del corpo quest’opera prima così eccentrica e straniante? Cosa spartiscono tra loro le vicende in apparenza piuttosto lontane di un’incolore segretaria e di una impiegata parecchio appariscente, di uno scapolo che si infila nei letti degli altri e di una vedova costretta a lasciare la sua casa, di una coppia di malati terminali e di una di adolescenti innamorati, di due superciliose studentesse di college e di due fratelli reclusi in un lager, di una bambina ribelle e di un docile fantasma, di un serpente, di una medium, di un seno appena cresciuto? Sono sempre i corpi i protagonisti veri di Rita Bullwinkel.
«Mi domando spesso quale sia la reale differenza tra me e un pero. Ritengo che l’esperienza di avere un corpo sia estremamente bizzarra e così, quando guardo le cose che non sono il mio corpo, specialmente quelle che mi sembrano belle, come le piante o gli animali, mi chiedo: potrebbe essere me? Potrebbe la mia anima vivere in quel cespo di lattuga? Come sarebbe una vita da lichene?», ha dichiarato in un’intervista la narratrice nata non sappiamo quanti anni fa a San Francisco – dove è tornata a stabilirsi di recente dopo avere vissuto molto tempo a New York e trascorso un periodo a Nuova Delhi – che sta lavorando a un romanzo su due donne boxeur, ha un passato da pallanuotista ma ha anche girato le spalle a un dottorato in studi religiosi. I corpi che abitano i suoi racconti sono in continua mutazione: alterano le loro sembianze, muoiono e rinascono, all’improvviso svaniscono, riappaiono travestiti da spettri. Sono corpi che si sciolgono ma pesano, corpi che se ne stanno annidati all’interno di altri corpi; corpi nascosti, offerti, divorati. Richiama l’idea della morte e del cibo, oltre che di una molto corporea oblazione, il titolo originale del libro, l’intraducibile Belly up. Starsene a pancia all’aria e naturalmente piena o porgere se stessi in atto di sottomissione, ma anche finire spacciati galleggiando come un pesce a pelo d’acqua. Né manca la suggestione di una molle, scivolosa rotondità che può tendersi fino a esplodere lasciando uscire la sostanza da cui è composto il suo ripieno. Peccato che nell’edizione italiana sia stata omessa la dedica in cui l’autrice riconosce il proprio debito verso la nonna paterna: una pittrice che dipingeva solo gigantesche cipolle. Intere, spaccate di netto a metà, tagliate a fettine sottili, appena sfogliate. Bulbi rotondi, pance fatte di veli che promettono un misterioso, trasparente interno.
Dal comico all’assurdo
Usa un linguaggio classico Rita Bullwinkel per scrivere le sue storie stralunate e perturbanti: raffredda l’incandescenza dei materiali narrativi, ammorbidisce le tinte accese degli scenari, contiene l’espressionismo grottesco dei personaggi con uno stile intenzionalmente piano, domestico ma non sentimentale, scanzonato, elastico, appuntito senza che diventi mai troppo tagliente. «Mi ristorano gli scrittori che strappano via la superficie e dicono le cose in modo semplice. Questa semplicità mi sembra la cosa più onesta», ha detto alla prestigiosa «Paris Review». Variano le tonalità dal comico al drammatico all’assurdo. L’effetto che i suoi racconti producono dentro la mente del lettore non è esattamente onirico né surreale, piuttosto psichedelico, perché la pagina sembra spalancare l’accesso a una percezione accresciuta della realtà. I fendenti del suo immaginario, così avrebbe detto Ursula K. Le Guin, dischiudono dentro la nostra testa l’«aperta libertà» dell’irreale.